Keith Richards

L’intervista Il chitarrista della band celebra anche il suo secondo disco solista «Main Offender» del 1992

 

Un tour per i 60 anni dei Rolling Stones: «Insieme per sempre Dico basta a fumo e alcol»

Andrea Laffranchi

Sessanta tondi tondi. Gli anni di carriera con i Rolling Stones. All’anagrafe Keith Richards ne dichiara 78. A guardargli le rughe profonde come vallate sembrano molti più, ma, diciamo così, li ha vissuti pericolosamente. La rock band più famosa del pianeta celebra la ricorrenza con una nuova versione multicolor dell’iconica linguaccia e un tour in Europa: 14 date negli stadi, debutto il 1° giugno a Madrid e in Italia un passaggio a San Siro il 21 giugno. Il chitarrista celebra anche i 30 anni di «Main Offender», suo secondo album solista, rimasterizzato per l’occasione e con una versione deluxe che contiene chicche e un live inedito dell’epoca.

Ad ogni annuncio di un tour dei Rolling Stones, si dice che sarà l’ultimo…

«Noi non lo abbiamo mai detto. Lo dicono gli altri. Anche se Rolling Stones ormai è un qualcosa che ha una vita propria. Mi piace l’idea di celebrare questi 60 anni in Europa, sempre che quest’estate ci sia ancora un’Europa».

La vostra «Gimme Shelter» è tornata attuale. Allora c’era il Vietnam ora la guerra in Ucraina.

«È una maledizione che torna nel corso della storia».

Voi non suonerete in Russia e molti hanno cancellato le date per l’aggressione…

«È fuori dalla nostra lista. La Russia oggi è come il Sud Africa dell’apartheid: un posto dove non vuoi andare».

Charlie Watts non c’è più. Come è stato nei primi concerti negli Usa voltarsi e non vederlo più alla batteria?

«Charlie era unico. E per fortuna Steve Jordan, che nel 1992 già collaborava con me e da tempo lo fa con la band, non cerca di suonare come lui. Le prime volte ero scioccato nel non vederlo e con Steve ridevamo: “Pensi che sia lui?”, mi diceva. Ora c’è una dinamica diversa. Siamo una nuova band ma allo stesso tempo restiamo gli Stones».

Non avete pensato allo scioglimento?

«Io, Mick e Ronnie ci sentiamo più stretti ora che Charlie se ne è andato. Sono appena tornato dalla Giamaica dove con Mick e Steve abbiamo lavorato a nuovi brani».

«Main Offender» uscì in un periodo tempestoso per la band. I dischi solisti suoi e di Jagger, l’anno dopo l’addio di Bill Wyman. Arrivaste vicini all’addio?

«Se ci fossimo mai dovuti sciogliere sarebbe stato attorno a quel periodo, o poco prima. Lavorando assieme da così tanto non sarebbe stata una sorpresa se fossimo scoppiati. In situazioni del genere o ti sciogli o resti assieme per sempre come stiamo facendo ora».

Il batterista scomparso

La morte di Charlie Watts ci ha uniti: le prime volte mi scioccava non vederlo sul palco

Come le sembrò il passaggio a frontman? Temeva il paragone con Jagger?

«Io e Mick abbiamo un modo diverso di cantare. Lui è un gran cantante r&b, io ho più senso per la melodia e su quel disco, non dovendole scrivere per lui, provai cose diverse e più fresche. Ho anche imparato molto sull’essere frontman: negli Stones posso anche stare un po’ in ombra sul palco, da frontman ci devi essere sempre».

Fu duro raccontare le sue dipendenze in pubblico con «999» e «Eileen»?

«Ero nudo davanti all’opinione pubblica da anni, e tutti sapevano di me. Avevo smesso con l’eroina nel 1978, quindi scrivevo di cose che conoscevo e che ricordavo».

La data di Las Vegas del vostro tour americano è stata aperta dai Måneskin. Sono il nuovo rock?

«Non vedo mai le band che aprono i nostri show, ma se fanno rock and roll gli auguro buona fortuna».

La pandemia per lei?

«Deprimente, ma per la prima volta in vita mia sono stato nello stesso posto per un anno: stavo in giardino e seguivo l’alternarsi delle stagioni. Il tour è stato un rischio ma siamo stati attenti e disciplinati, che non è molto da Stones e tutto ha funzionato».

La sua disciplina personale?

«Sto provando a mollare tutto. Ho smesso di fumare sigarette. Non bevo più. E mi sto abituando».

La dipendenza del non avere dipendenze?

«È quello di cui ho paura».

 

 

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