La tomba di Dante è oggi ridotta a mangiatoia: i più rincorrono consumismi culturalmente transeunti o conformismi anglofoni, ancor prima di provare a capire le eterne radici dell’italianità. Per realizzare il proprio progresso, l’italianità non necessita di farsi prostituta nelle mani nichiliste di progressismi gigolò. Una volta arrivati al potere di governo, i progressismi incapaci di strutturare un progresso civile nella vita di relazione smettono d’esser progressisti. Diventano forni da cui sfornare pagnotte corrotte, ripiene di politicamente corretto. Altre volte, qualche corrente progressista è già falsa di per sé, sin dallo stadio pre-governativo di outsider.

Figlia di una resa popolare alle incrostate predestinazioni interne, la percezione dominante tra i giovani e i meno giovani ha partorito il seguente mantra autolesionista: per chi lavora da intellettuale libero nel mondo della cultura, l’estero sta al progresso e alla finezza come l’italico Stivale sta alla mediocrità, al magna-magna e al bunga-bunga. Che tristezza arrendersi ad un mantra privo di leggi causali in natura!

Inoculata per troppo tempo negli animi degli adulti, questa retorica viaggia nell’inconscio giovanile anche quando non la si vuole assecondare. Il suddetto mantra si basa certamente su profili critici portati al parossismo, tuttavia occorre vegliare sulla propria impermeabilità, sulla propria capacità fattiva di dissidenza intellettuale: per non annichilire. Questo mantra esterofilo non è esotico, non è filantropico, bensì retorico. Diventa sostitutivo di tradizioni italiane, salutate come non più capaci di farsi pioniere con solide economie letterarie ed umanistiche. Mentre l’italianità viene declassata a spazio meramente archeologico, i più fortunati per galleggiare strizzano l’occhio alle inaccessibili tecnocrazie dominanti. Il mantra del “meglio parlare altre lingue” e la conseguente svalutazione della lingua italiana, ritenuta inutile sulla scala globale delle istituzioni del capitale chic, ha generato persino distorsioni concettuali nella politica. Le narrative pop-politiche ci hanno indotto a bipolarizzarci su posizioni retoriche di sovranismo e anti-sovranismo, con impotenti sfumature di comodo.

Persino i più critici non riescono a farsi dissidenti, tra gli intellettuali. Per conformismo indotto, o per tirare a campare, entrano in tanti a luci spente nell’ottica del mantra esterocratico. Il sistema educativo e comunicativo di volta in volta egemone traccia il campetto culturale mediatico in cui è possibile contestarsi e amarsi, graffiarsi o leccarsi le ferite già tatuate dai canovacci di maniera. La cultura si faccia azione e compimento sociale, politico, sessuale, professionale, a misura d’individui attivi e non di passive masse dominabili con due clic. I recinti sono pronti, i cori da stadio pure. Il gregge da dividere in guerre tra poveri non manca. Povera quest’Italia, offesa e vilipesa da chi la svaluta sui marciapiedi dissacrati delle statolatrie russe o cinesi, da chi sente il suono del nostro verbo come troppo tenue ed incapace di concorrere con gli altri Stati. Pochi sono rimasti a fare le dovute distinzioni tra l’ottocentesco, indipendentista, unificazionista patriottismo, da un lato, ed il novecentesco, imperialista, autoritario nazionalismo, dall’altro lato. Il concetto di patria può essere associato a quello di nazione o a quello di continente, come a quello di regione, si sa. Eppure il concetto morale di  patria  può essere associato anche alla  lingua  italiana, in un esercizio individualista nonché autodeterminato di sovranità linguistica diffusa.

La sovranità è un carattere che insieme al popolo ed al territorio costituisce uno Stato, quale ente politico di diritto. Bene! Ogni volta che un italiano ben parlerà l’italiano in ogni parte del mondo, eserciterà un atto morale di identitaria sovranità individuale, un atto sentimentale e cosciente d’italianità. Ogni volta che un italiano declamerà un verso in italiano nel mondo, la tomba di Dante e quella di D’Annunzio saranno i porti morali della nostra antica libertà sudata. La lingua è come la poesia secondo lo spagnolo Federico García Lorca: alla ricerca di amanti, mica di seguaci. L’italiano ha una sua razionalità latina ed una sua grecità spartana e carnale. Parlare l’italiano con coscienza e sapienza lasciva è come sorseggiare il vino della tradizione, masticando con amore la carne viva di una futuribile cultura millenaria.

Gli italiani, pur conoscendo ed apprezzando la dominante lingua inglese, dovrebbero promuovere la propria identità linguistica nel mondo. L’Italia può farsi patria e matria italeuropea, corsara nel produrre e nel proporre studi italiani nel mondo, partendo dalla poesia in lingua italiana, fino ad arrivare a sdoganare la riflessione politica, artistica, estetica in lingua italiana oltre i confini. Una italianità forte e aperta, in cui credere e investire, attirerebbe molti intellettuali europei ed extra-europei, spingerebbe le editrici di tutto il mondo sulle traduzioni in italiano per le loro migliori opere. Lode alla lingua italiana quale patria morale e culturale per lo spirito. Lode alla sua musicalità, che tatua sulla pelle emozioni folli e forti idee. Più si è forti, italianamente, più si diventa aperti alla transcontinentalità: non solo da magneti attratti per inerzia dalle potenze ex colonialiste bensì da calamite.

Espatriare non solo le idee ma anche la lingua, con la sua – la nostra – musicalità, con animo fiero di chi pur sapendo di dimorare sulle spalle dei giganti connazionali del passato non si adagia in anacronistiche pose, bensì si sente sempre in mezzo al mare della creatività. Un patriottismo linguistico e culturale, aperto e dinamico nella sua stessa identità, può farsi strada attraverso una rigenerata idea di Stati Uniti d’Europa, per superare le contraddizioni di questa Unione europea che ancora paga per creare campi profughi e che in tema di diritti umani dei migranti umanitari adotta l’atteggiamento dell’armiamoci e partite.

L’Italia patria tra le patrie avrebbe la stoffa per essere pioniera e potente, avrebbe il carisma culturale per fare dell’arena di Verona, del Colosseo di Roma, dei Sassi di Matera i più innovativi spazi geosociali e politologici degli eventuali Stati Uniti d’Europa. Eppure siamo ancora fermi, tra stanchi europeismi abitudinari e ridicoli nazionalismi che trovano la propria gloria nel solipsismo delle bandiere, spesso issate senza vento.

In un futuribile assetto di Stati Uniti d’Europa potremmo valorizzare la cultura e la lingua nazionali, molto meglio di quanto riusciamo a fare nell’attuale Unione europea. Federalismo europeo e patriottismo italiano sono due amanti che potrebbero regolarizzare la propria convivenza, oltre ogni nazionalismo, oltre ogni farisaico europeismo: l’Italia ce l’ha duro, il carisma culturale, e con equilibrata radicalità potrebbe declinare meglio la propria potenza in un contesto di Stati meritocraticamente federati nelle libertà. In un’intervista al presidente dell’Unione Paneuropea Internazionale, il giurista e politico francese Alain Terrenoire, per un articolo pubblicato su “L’Opinione” il 26 febbraio 2021, chi qui ora scrive ha chiesto se si può essere patrioti della propria nazione ed al contempo paneuropei. L’idea “finale” di Pan-Europa di Kalergi, l’ispiratore dell’Unione paneuropea, era infatti diversa dall’attuale Unione europea. La risposta di Alain, lucidamente secca, è stata: “Un paneuropeo è un patriota nel e per il suo paese”.

Le menti medie del conformismo odierno invece si accovacciano a 90 gradi, accorate in un omogeneizzato pensiero spacciato per progressista. Quelle stesse menti restano infantili senza mai sperimentare le gioventù dello spirito. Esse, pur invecchiate, applaudono o cliccano senza memoria, senza ardore, senza missioni folgoranti, senza aver mai dato il primo bacio alla vita. Al posto dell’umana identità in divenire, sull’immobile ego, hanno iscritte nuove cifre algoritmiche quali ipoteche per i propri acquisti indotti nel web, senza perché. Così, più in generale, sugli altari delle nuove nemesi algoritmizzate fanno sesso, come amanti segreti, poteri economici progressisti e populismi di maniera. Il politicamente corretto avanza. Occorre almeno un giuridicamente corretto per iniziare a reagire. Un verso poetico per vivere forse basta, per ora, in questo caos.

Intanto l’italianità culturale piange, fuori dai cori. I maghi del web – d’un tratto progressisti farisaici – promuovono leggi senza giuridicità, libertà sessuali da laboratorio senza libido, ideologie senza missioni, marxismi anticollettivisti o capitalismi anti-imprenditoriali e, ancora, sanzioni penali a caccia d’opinioni da censurare, o in cerca di categorie entro cui ingabbiare l’universo-persona. L’Italia? Una volta fatta avremmo dovuto fare gli italiani, si disse. Preferiamo invece diventare automi e surrogabili, per evitare la fatica di metterci in evolutiva discussione per quel che siamo, per quel che possiamo essere.

La tomba di Dante oggi è ridotta a mangiatoia: non quella di Gesù, dai cui nobili stracci messi in croce sarebbero altrimenti nati infiniti fiori e nuovi ordini umani, dentro ed oltre ogni paradosso. Ai neofiti del conformismo cibernetico bastano mobili hashtag senza conquiste. La tomba di Dante è oggi una mangiatoia, purtroppo, quando gli italiani fuggono dall’origine della propria identità senza riuscire a criticarla veramente. Come si può infatti criticare ciò che per inerzia si è rinunciato a scrutare? Senza penetrare nell’essenza del suono italico, in quel verso che spezza e fa rinascere il fiato mentre si legge il verbo patrio, la spasmodica iscrizione all’ultimo master anglofono promette al ribasso esistenze semplicemente fighette, mai fighe veramente.

Al freddo e al gelo di una mangiatoia senza cristi né madonne, si ritrovano nudi l’impeto, la dolcezza, il furore e l’eleganza della lingua italiana. I versi dei poeti restano soli, destinati all’eremitaggio in una civiltà pervertita dalle predestinazioni culturali, dai nepotismi e servilismi transgenerazionali, dalle pose plutocratiche o pauperistiche degli ambienti clubbisti o della retorica alternativa, dai consumi eteroindotti che dall’esterno manipolano le identità morali e culturali degli io.

Non di solo pane italiano vive l’italiano; c’è un altro pane che sazia la sapienza, dopo che la pancia è piena. Nella notte fonda dell’apatia ogni investitore politico purtroppo può lottizzare spazi economici e culturali per pochi, spatriotizzando e dematricizzando la memoria poietica di tutti. Esiliando mediaticamente i veri dissidenti che senza padroni al di fuori dei recinti partitocratici discutono il concetto e militano per il verbo italico, la tomba di Dante è ridotta a sezione buonista del partito nichilista, la vestaglia di D’Annunzio a bavaglio delle antiche libertà. Alla faccia del progresso.

Stando così le cose, si dovranno rassegnare gli umanisti lavoratori intellettuali del Belpaese? E i poeti, e i filosofi? D’altronde Indro Montanelli ci ricorda ancora, dovunque si trovi ora, che “Il bordello è l’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto”. E da quel che apprendiamo dagli anziani o che possiamo leggere dai tanti contributi, l’Indro è l’Indro: non era tipo da mantra a gettone. Possiamo quindi fidarci di chi ha onorato patria e umane lettere, resistendo a tiranni e franchi tiratori, senza mai prostituire la libertà civile, la parola, l’italianità. Coloro che hanno imbrattato con vernice la statua con cui proviamo a ricordarlo, in verità, sono i nuovi prostituti che godono penetrati dall’incivile retorica, senza lingua, al suono irrazionale di una violenta, illiberale cancel culture. La vagina della nuova dominante idea di patria spatriata si prostituisce senza liberi consensi informati, praticando piaceri con la lingua degli altri, perdendo sapienza e militanza sulla lingua propria. Alla faccia delle buone idee.

Torni a sverginarsi e a sverginare, la lingua culturale italiana, libera nella sua lotta di classe linguista: nelle piazze unite dell’Europa, sui gradini del mondo globalizzato.