Io sono unico , la rivolta di Stirner.

 

Presso la casa editrice Bompiani è uscita da poco una nuova edizione della grande opera di Max Stirner L’unico e la sua proprietà, con testo tedesco a fronte e un’eccellente traduzione di Sossio Giametta, corredata da minuziose note storico-critiche. Completa il volume un’imponente bibliografia, curata da Vincenzo Cicero, che offre un quadro esauriente dell’alterna fortuna toccata a questo singolare pensatore.

Di Max Stirner non è rimasta alcuna immagine — solo un profilo tracciato con la matita da Engels a distanza di quarant’anni. Lo distingueva una fronte ampia che fu lo spunto per il suo pseudonimo: da max-ima, molto alta, e Stirn, fronte. Il vero nome era Johann Caspar Schmidt. Poco si sa della sua vita, passata tra avversità, debiti, miseria, solitudine. Morì, a soli 49 anni, pressoché dimenticato da tutti. Nell’estate berlinese del 1856 solo il fedele amico Bruno Bauer accompagnò al cimitero la salma di quell’oscuro teorico della rivolta.

La fama giunse solo decenni dopo, quando il poeta John Henry Mackay, nel suo scritto storico Gli anarchici, uscito nel 1891, rilanciò il suo pensiero, facendone il pilastro del nuovo secolo a venire, quello che come motivo guida avrebbe avuto la libertà. Come immaginare, d’altronde, il Novecento senza il contributo decisivo di Stirner, il suo nichilismo esasperato, l’egoismo onesto e rabbioso, la ribellione estrema dell’individuo assurta a categoria filosofica?

Eppure non si possono nascondere imbarazzanti silenzi: quello di Nietzsche, che in privato ne parlava con fosca esaltazione, temendo di venire un giorno denunciato per plagio; quello di Heidegger che, pur non menzionandolo, ne riprese in qualche modo il tema dell’esistenza protesa sul fondo del nichilismo. Così scrive Stirner al termine della sua opera: «Ho fondato la mia causa su nulla».

Il silenzio, che per decenni ha avvolto la sua figura, si spiega per la fama sulfurea che lo ha accompagnato. Stirner era ritenuto un insopportabile psicopatico, un geniale spaccone, l’epilogo più brutale e corrosivo della tradizione tedesca dopo Hegel. Al punto che Kuno Fischer tentò di radiarlo dalla sua monumentale Storia della filosofia moderna, accusandolo addirittura di un vero e proprio attentato alla filosofia. Insomma, quel personaggio così unico, quel ribelle che non fu mai un capo politico, non riuscì a trovare posto nel mondo, né in vita né dopo. Stile accattivante, privo di pedanteria, pensiero ironico e profondo: L’unico e la sua proprietà è un capolavoro letterario che ha un effetto liberatorio. Stirner prende anzitutto le difese dell’individuo ineffabile, insostituibile, irripetibile, insomma «unico». È da questo «io» nella sua unicità che occorre ripartire. Per svincolarlo finalmente dai secolari lacci che lo tengono prigioniero. Sono i lacci della religione per eccellenza, il cristianesimo, ma anche quelli di tutte le religioni laiche — l’etimo di religio rinvia appunto al legare — che esercitano un potere pervasivo e violento. Questo io unico, che Stirner chiama «ego», non è il semplice esponente della specie, né può essere sacrificato sull’altare dell’universale, come pretendeva Hegel.

Viene intuito così quello che sarebbe stato il grande pericolo del Novecento: l’ideale totalizzante che avrebbe trovato la sua deriva nel totalitarismo. Anche al prezzo di essere esposto all’angoscia del vuoto, e dell’orrore che suscita, l’«io» che dà inizio a una nuova epoca deve poter fare a meno di ogni protezione, di ogni tetto e copertura che, a ben guardare, si rivelano altrettanti strumenti per asservirlo. Stirner mira al dissolvimento della società gerarchica, punta l’indice contro le istituzioni, il diritto, lo Stato. La libertà politica, cardine del liberalismo, viene pensata solo come vincolo del cittadino allo Stato. Di che libertà allora si tratta? Solo di una camuffata sudditanza dell’«io». Il cittadino è il novello schiavo che si genuflette dinanzi a questo «Dio mondano». Servire lo Stato è «l’ideale supremo» del liberalismo borghese.

«Libertà politica, che cosa bisogna intendere con ciò? Forse la libertà del singolo dallo Stato e dalle sue leggi? No, al contrario», ironizza Stirner in alcuni celebri passaggi. E prosegue: «Non significa la mia libertà, bensì la libertà di un potere che mi domina e costringe; significa che uno dei miei tiranni, come lo Stato, la religione e la coscienza, è libero. Stato, religione, coscienza, questi tiranni, mi rendono schiavo, e la loro libertà è la mia schiavitù».

Non basta, dunque, spazzare via queste vecchie carcasse; occorre affrancare l’individuo dai fantasmi interiorizzati che lo tengono in pugno. Come? Creando nel suo intimo dipendenza, sottraendogli la sua proprietà, alienandolo. Prima di essere politica, la rivolta è esistenziale. In tal senso non si esagera indicando in Stirner un precursore, a tutti gli effetti, della filosofia novecentesca che nello slancio dell’esistenza, nel suo afflato estatico, avrebbe visto la via per superare ogni volta il limite dell’«io», ma soprattutto per rimuovere l’inautenticità.

L’individuo non ha compiti, né vocazioni; non è tenuto a rispettare niente e nessuno. Piuttosto presta ascolto a sé. Ed è chiamato perciò, godendo la sua vita, a non misurarsi, né a paragonarsi ad altri. Stirner confessa con il suo consueto, aspro sarcasmo: «Mi pensavo solo paragonandomi a un altro; insomma non ero io tutto in tutto, non ero — unico. Ma ora smetto di vedermi come l’inumano, smetto di misurarmi e farmi misurare sull’uomo, smetto di riconoscere qualcosa al di sopra di me e con questo — ti saluto critico umanista! Inumano io sono solo stato, ora non lo sono più: adesso sono l’unico, anzi sono, per tuo scandalo, l’egoista». Sarebbe riduttivo, però, prendere questa posizione per un volgare egoismo. Ciò che anima Stirner è l’aspirazione a diventare se stesso, senza assumere modelli esterni, è la libertà intesa come riappropriazione di sé, autenticità.

Quando l’opera di Stirner uscì, nel 1844 (con la data del 1845), venne dapprima messa all’indice e quindi dissequestrata da un ministro dell’Interno non troppo acuto, che sentenziò: «Da quel libro non ci si può aspettare nessun vero effetto dannoso sui lettori, dato che predica cose assurde e nient’affatto credibili». Quella filosofia, insomma, non avrebbe avuto risonanza. Subito dopo fu però nuovamente vietato in Prussia; ma nel frattempo girava già ovunque.

Nell’Ideologia tedesca Marx ed Engels dedicarono a Stirner un capitolo intitolato San Max, una critica «voluminosa quanto il libro stesso». Quell’«unico» non era che l’individuo proprietario della società borghese. Il suo principio non era forse l’egoismo? Per Marx alla fin fine Stirner non aveva compiuto che «un movimento di trottola» rispetto a Hegel. Restava pur sempre nell’ambito speculativo. Quella ribellione dell’individuo, tutto preso dalla sua autocoscienza, non poteva certo essere confusa con la rivoluzione del proletariato.

Tuttavia Marx intuì che il profeta dell’anarchismo metteva l’accento su una unione di individui liberi che, in fondo, non avrebbe dovuto essere trascurata — se non altro guardando alla futura comunità senza classi.

 

Fonte: La Lettura, https://www.corriere.it/la-lettura/