Intervista a George Drivas,

/Uncinematic è il primo solo-show di George Drivas e si muove all’interno della cornice di Time is Out of Joint. Tra le opere della collezione permanente l’artista greco ci restituisce, attraverso alcuni cortometraggi, la sua visione fatta di paesaggi distopici e tempi frammentati.

Domenica 18 giugno 2017, a tre giorni dall’inaugurazione della mostra, La Galleria Nazionale lo ha intervistato nel quartiere EUR, a Roma.

 

 

Il 2017 è un anno importante, soprattutto in Italia. La tua rappresentanza al Padiglione Grecia alla Biennale di Venezia con Laboratory of Dilemmas e il tuo primo solo-show a Roma, alla Galleria Nazionale d’arte Moderna e Contemporanea.

Decisamente sì. Anche se partecipare alla Biennale ti consente da un lato di impegnare una grande somma di denaro in tuo lavoro, dall’altro non è però sempre gratificante. Non amo molto questo tipo di rassegne, che per certi aspetti sono come dei supermercati. Le persone hanno in media 2 giorni per visitare tutti i padiglioni, e ciò rende impossibile la contemplazione e l’interpretazione dei lavori dei singoli artisti. In questo senso la possibilità di una mostra alla Galleria Nazionale è per me di notevole rilevanza. Il Museo per me è uno spazio sacro, dove l’arte va contemplata.

 

     

 

Arte come ritualità, come nell’antica Grecia? Dove tutta la comunità assisteva agli spettacoli vivendo una catarsi collettiva nella comica o tragica messinscena del destino umano?

Esatto, è necessario riattivare una dimensione “rituale” partecipativa. Questo è il motivo per cui nella mia vita, e non solo nel mio percorso artistico, ho sempre amato molto le chiese e assistito a messe di differenti religioni. Non mi interessava l’aspetto spirituale ma quello simbolico. In tutte le società, dalle più arcaiche a quelle contemporanee, sono necessarie forme di rappresentazione della coesione interna tra gli individui, delle tensioni che le attraversano, delle paure e delle speranze. Ecco, per me l’arte deve sollecitare tutto questo e il Museo è il posto dove ciò può accadere.

 

    

 

I tuoi lavori sono tutti cortometraggi, ma parte della tua produzione è caratterizzata da una sequenza di fotogrammi che, al contrario del cinema, non generano movimento ma suggeriscono l’illusione del suo movimento.

Cinematografia e fotografia intrattengono da sempre un rapporto significativo. L’immagine fissa è la materia prima per la creazione dell’immagine in movimento, ed è precisamente così che la uso. Da un lato quindi il ritorno al fotogramma è un omaggio al cinema, riducendolo alla sua struttura originaria, dall’altro è il mio modo di rappresentare la realtà: che cos’è la realtà se non un insieme di momenti?

 

    

 

Nel 1992 Marc Augé coniò il termine non-luoghi per definire i nuovi luoghi tipici della modernità del mondo occidentale, o della surmodernità: luoghi non identitari, privi di relazione, di storicità. C’è chi ha paragonato le ambientazioni dei tuoi cortometraggi proprio ai posti cui allude l’antropologo francese. Esiste davvero un processo di spersonalizzazione? Tu come definiresti i tuoi luoghi?

Li definirei universali. Questo perché le situazioni che racconto sono estratti di realtà, che potrebbero accadere a Roma come ad Atene, a Londra, a Berlino. E questa è la ragione anche dell’uso del bianco e nero (o della desaturazione): rendere tali posti inaccessibili, non identificabili, nemmeno dal punto di vista spazio-temporale.

 

Intervista e foto di Alessia Tobia