Il risveglio dell’arte
Idee
Piovani reloaded
“Il teatro è carnale, fisico, come l’erotismo ha bisogno del corpo. La parola che torna più spesso tra i musicisti e sul palcoscenico è ‘fiato’, ora bendato da una mascherina”
radioso come il Sole, ma nella sua faretra ha punte acuminate, che portano pestilenze. È il dio della musica, delle arti, della poesia, ma anche della scienza che guida la ragione. È venerato come oracolo a Delos e a Delfi. Ma il tempio a lui dedicato nell’isola di Ortigia, che tra resti di colonne e un giardino di palme ancora sbalza indietro nel tempo, è il più antico luogo di culto dorico della Sicilia, e dunque dell’Occidente greco.
Non potrebbe esserci un posto più suggestivo né un personaggio mitologico più simbolico per scandire la ripartenza del teatro dopo il lungo lockdown di quest’anno: il teatro greco di Siracusa e il dio Apollo, una delle divinità più adorate del Dodekatheon. Celebrati con un’opera composta e diretta da Nicola Piovani, su libretto di Vincenzo Cerami e versi che uniscono Omero ad Einstein, i poeti contemporanei Elytis e Seferis al romantico Byron, con la partecipazione della cantante Tosca e dell’attore Massimo Popolizio: “L’isola della Luce. Dedicato ad Apollo”.
Un’opera riproposta sedici anni dopo la prima versione, andata in scena a Delos, nelle Cicladi. «Isola che un tempo si chiamava proprio Ortigia, come il nucleo più antico di Siracusa, prima che Apollo la ribattezzasse Delos, la luminosa. E la luce di Siracusa, per chi la conosce, ha un fascino davvero unico», interviene il compositore, ribadendo i simbolismi – che, a scorgerli, si moltiplicano: “sorella di Delos” chiamava il poeta Pindaro la città siciliana.
Al culto di Apollo, dio della luce, e della gemella Artemide, dea della luna, adorati insieme con la madre Latona, sono dedicati i due appuntamenti, il 10 e l’11 luglio, che apriranno “Inda 2020 Per voci sole”, il programma alternativo alle Rappresentazioni classiche, quest’anno cancellate e riprogrammate per il prossimo (“Le Baccanti”, “Ifigenia in Tauride” e “Le Nuvole”), a causa dello stop per pandemia. In programma, a seguire, “Da Medea a Medea” con Lunetta Savino (17 luglio), “La vedova Socrate” con Lella Costa (25 luglio), “Aiace” con Luigi Lo Cascio (1 agosto) e poi Laura Morante, Isabella Ragonese, Teho Teardo. A chiusura, un’opera prima dell’artista rumeno Mircea Cantor, con gli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico (www.indafondazione.org).
“L’isola della luce” andrà in scena in un immenso teatro semivuoto – il teatro di Siracusa ha una capienza di 10 mila posti – e con particolari accorgimenti tecnici, legati alle misure di prevenzione sanitaria: «Abbiamo rovesciato le posizioni tradizionali del teatro: le gradinate, normalmente affollate da migliaia di spettatori, saranno vuote, e faranno da fondale alla rappresentazione. Il pubblico, solo 480 persone, siederà su quello che normalmente è il palcoscenico e noi suoneremo su un palco montato fra le gradinate e il pubblico», spiega Piovani.
Una disposizione che ribalta dalle fondamenta la cerimonia collettiva più apotropaica di tutte, rito che resiste da 2500 anni, nelle sue tre condizioni d’esistenza: il teatro, l’opera, il pubblico, come ricorda anche Ágnes Heller nel suo splendido, ultimo saggio, “Tragedia e filosofia. Una storia parallela” (a cura di Andrea Vestrucci, appena pubblicato da Castelvecchi): tragedie e commedie nascono per essere recitate davanti e per i cittadini di Atene, davanti e per il pubblico – e Dio siede in mezzo a loro. Oggi pubblico ridotto, e distanza tra direttore d’orchestra, musicisti e coristi, sono per tutti un inedito banco di prova.
«Una ferita. Andare in un teatro da migliaia di posti e far entrare così poche persone è davvero una dolorosa ferita. Il pubblico è acqua per chi sta sul palcoscenico. E il teatro è carnale, fisico, è come l’erotismo: ha bisogno del corpo. La comunicazione del direttore d’orchestra è fatta di sguardi; la parola che torna più spesso in un’orchestra è “fiato”: si dice che un’orchestra è più o meno “affiatata”, ad esempio, quel fiato adesso bendato da una mascherina. Il teatro, per me, è lingua potente, è insopprimibile arte del futuro. Le attuali, sacrosante misure di protezione lo feriscono a fondo, ma non arriveranno ad ucciderlo», aggiunge Piovani.
E il suo spettacolo conferma: «Gli interrogativi di fondo che hanno ispirato “L’isola della Luce”, dopo un periodo così buio come è stato il nostro inverno, diventano anzi più potenti, più luminosi, più commoventi. La riscrittura per due cantanti femminili tende a potenziare proprio l’aspetto emotivo di quest’opera, e la dolcissima voce di Tosca ci aiuterà a dare un senso emotivo agli interrogativi metafisici di Albert Einstein».
«Darkness…darkness. Darkness. L’oscurità vaga nello spazio eterno e la terra si è coperta di ghiacci. Nessuno poté più fare un passo fuori di questa notte scura», recita Popolizio, introducendo le doglie di Latona, e richiamando la paura messa in versi da George Byron in un poema del 1816, anno “senza estate” a causa dell’eruzione del monte Tambora, nelle Indie Occidentali olandesi, quando tanti cadono nel sonno, e dal sonno scivolano nel nulla.
«Due movimenti narrano la nascita di Apollo sull’isola di Delos», riprende Piovani: «Il parto di Latona, madre di Apollo, fu contrastato dagli dei perché era il frutto di una avventura adulterina di Zeus, una delle tante. Ma fu ostacolato anche perché Apollo è dio della luce, avrebbe portato luce e bellezza agli uomini e per le divinità, da sempre, la luce degli uomini non deve essere troppa. Oltre alla bellezza della luce, la cantata racconta anche la paura del buio, dell’oscurità che da sempre sgomenta gli uomini. Questa paura viene cantata sui versi di George Byron e attraverso quelli di “Black out”, una composizione di Cerami ispirata al black out americano del 2003».
«Blackout, black out…Il sole non nasceva più e le folle fissavano dove in fondo finisce l’asfalto o dove la collina è più nera del cielo o dove i fiori aspettano di schiudersi». Era il 14 agosto, quando iniziò uno dei più grandi black out della storia, con 55 milioni di persone lasciate d’improvviso al buio.
«La prima versione di questa cantata risale proprio a quell’anno. La scrissi su commissione del Ministero della cultura greco, per l’inaugurazione dei giochi olimpici di Atene 2004», ricorda Piovani: «La parte del narrante, oggi affidata alla voce fascinosa di Popolizio, allora era del grande attore greco Nikitas Tsakiroglouè». Al posto di Tosca c’era invece la cantante israeliana Noa. E quest’opera è anche, a sette anni dalla morte, un omaggio a Cerami, sceneggiatore de “La vita è bella” e di tanti racconti musicali realizzati col direttore d’orchestra: «Il modo migliore per omaggiare un artista è per me quello di far circolare i suoi lavori. A molti movimenti de “L’isola della Luce” Vincenzo ha dato il suo marchio, la sua inconfondibile cifra. Sono felicissimo di riprendere l’opera in mano anche per lui, perché chi lo ama ha il diritto di ascoltare questi versi proposti in passato una volta soltanto. E sono grato a Rai Cinque che registrerà l’opera e la includerà nel suo catalogo».
“L’isola della Luce” si chiude con l’Inno al Sole di Mesomere di Creta, del I secolo dopo Cristo: luce che vince sulle tenebre, e invito al risveglio, alla vita nuova. A ritrovare la speranza, come in quella Primavera che conclude la “Sinfonia delle stagioni”, composta da Piovani per il decennale del terremoto dell’Aquila, nel 2019.
«Quando scrivo opere lunghe, che consentono di compiere un viaggio attraverso le tenebre, mi piace approdare alla luce. Qui c’è il buio, si va incontro all’oscurità, si affronta la paura. Il conflitto luce-buio può portarci anche oggi, basandoci sulla scienza, a un giustificato ottimismo. Ma anche a coltivare un rapporto con l’esistenza più solare, più vitale. Considerare questa esistenza un passaggio, ritenerci in uno stato provvisorio, in viaggio verso altri aggregati molecolari, in zone dove spazio e tempo saranno due categorie secondarie, ci fa vivere bene. Questa vita va onorata godendola, a schiena dritta».
Un monito che vale anche anche per lo spettacolo dal vivo: «Il teatro, in passato, ne ha superate di peggiori: una grave pestilenza al tempo di Shakespeare fermò i teatranti per più di un anno. Sono sicuro che anche il teatro di oggi supererà questa funesta fase, in tutto il mondo». A patto di non tradire il suo pubblico: «Qualche teatro ha pensato bene di supplire alla riduzione delle poltrone vendibili con l’aumento del prezzo del biglietto. Questa mi sembra una politica scellerata: selezionare il pubblico a seconda delle possibilità economiche è l’opposto di quello di cui abbiamo bisogno. In un momento di difficoltà diffusa, i teatri, quelli pubblici, sovvenzionati, dovrebbero agevolare l’accesso agli spettacoli del pubblico in difficoltà, non puntare sulle aristocrazie del conto in banca. Così si allontaneranno sempre di più, fra l’altro, i giovani, il pubblico del futuro di cui i teatri hanno, secondo me, sempre più bisogno: è la funzione per la quale sono finanziati dal contribuente».
Provvisorie, simboliche, propiziatrici: le rappresentazioni dal vivo tentano con coraggio, nel frattempo, di tenere viva la fiammella. «Lo ripeto: io conto molto sulla primavera: mi piace immaginare che la clausura da Covid sia un brutto incubo appartenente al passato, una tragedia da ricordare nei teatri di nuovo affollati, pieni di gente che tossisce allegramente. Il 15 luglio terrò col mio gruppo un concerto a Roma, nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica. Anche questa data, nella mia città, spero sia una data augurale, in attesa che tutti i luoghi teatrali del mondo riprendano a risuonare di musica e di prosa, di comicità e di tragedia, di applausi e di fischi, di trionfi e di fiaschi: tutti rigorosamente dal vivo! Mi auguro che torneremo ad accalcarci al più presto, ne sento un gran bisogno, sia come musicista sia come spettatore. Al momento, non possiamo rimuovere la realtà: ma risorgeremo, tutti quanti, con l’aiuto della scienza e della medicina».
E magari anche di Apollo “guaritore”, non a caso il padre di Asclepio, venerato come il dio della medicina. E con gli auspici di Myrilla, come era denominato l’architetto Damocopos che progettò quel magnifico teatro di Siracusa, dove già Eschilo nel 476 avanti Cristo giunse per rappresentarvi le sue tragedie: Myrilla perché, appunto, aveva l’abitudine di spargere sui suoi monumenti unguenti preziosi e misteriosi come la mirra, perché portassero fortuna.
Un’opera riproposta sedici anni dopo la prima versione, andata in scena a Delos, nelle Cicladi. «Isola che un tempo si chiamava proprio Ortigia, come il nucleo più antico di Siracusa, prima che Apollo la ribattezzasse Delos, la luminosa. E la luce di Siracusa, per chi la conosce, ha un fascino davvero unico», interviene il compositore, ribadendo i simbolismi – che, a scorgerli, si moltiplicano: “sorella di Delos” chiamava il poeta Pindaro la città siciliana.
Al culto di Apollo, dio della luce, e della gemella Artemide, dea della luna, adorati insieme con la madre Latona, sono dedicati i due appuntamenti, il 10 e l’11 luglio, che apriranno “Inda 2020 Per voci sole”, il programma alternativo alle Rappresentazioni classiche, quest’anno cancellate e riprogrammate per il prossimo (“Le Baccanti”, “Ifigenia in Tauride” e “Le Nuvole”), a causa dello stop per pandemia. In programma, a seguire, “Da Medea a Medea” con Lunetta Savino (17 luglio), “La vedova Socrate” con Lella Costa (25 luglio), “Aiace” con Luigi Lo Cascio (1 agosto) e poi Laura Morante, Isabella Ragonese, Teho Teardo. A chiusura, un’opera prima dell’artista rumeno Mircea Cantor, con gli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico (www.indafondazione.org).
“L’isola della luce” andrà in scena in un immenso teatro semivuoto – il teatro di Siracusa ha una capienza di 10 mila posti – e con particolari accorgimenti tecnici, legati alle misure di prevenzione sanitaria: «Abbiamo rovesciato le posizioni tradizionali del teatro: le gradinate, normalmente affollate da migliaia di spettatori, saranno vuote, e faranno da fondale alla rappresentazione. Il pubblico, solo 480 persone, siederà su quello che normalmente è il palcoscenico e noi suoneremo su un palco montato fra le gradinate e il pubblico», spiega Piovani.
Una disposizione che ribalta dalle fondamenta la cerimonia collettiva più apotropaica di tutte, rito che resiste da 2500 anni, nelle sue tre condizioni d’esistenza: il teatro, l’opera, il pubblico, come ricorda anche Ágnes Heller nel suo splendido, ultimo saggio, “Tragedia e filosofia. Una storia parallela” (a cura di Andrea Vestrucci, appena pubblicato da Castelvecchi): tragedie e commedie nascono per essere recitate davanti e per i cittadini di Atene, davanti e per il pubblico – e Dio siede in mezzo a loro. Oggi pubblico ridotto, e distanza tra direttore d’orchestra, musicisti e coristi, sono per tutti un inedito banco di prova.
«Una ferita. Andare in un teatro da migliaia di posti e far entrare così poche persone è davvero una dolorosa ferita. Il pubblico è acqua per chi sta sul palcoscenico. E il teatro è carnale, fisico, è come l’erotismo: ha bisogno del corpo. La comunicazione del direttore d’orchestra è fatta di sguardi; la parola che torna più spesso in un’orchestra è “fiato”: si dice che un’orchestra è più o meno “affiatata”, ad esempio, quel fiato adesso bendato da una mascherina. Il teatro, per me, è lingua potente, è insopprimibile arte del futuro. Le attuali, sacrosante misure di protezione lo feriscono a fondo, ma non arriveranno ad ucciderlo», aggiunge Piovani.
E il suo spettacolo conferma: «Gli interrogativi di fondo che hanno ispirato “L’isola della Luce”, dopo un periodo così buio come è stato il nostro inverno, diventano anzi più potenti, più luminosi, più commoventi. La riscrittura per due cantanti femminili tende a potenziare proprio l’aspetto emotivo di quest’opera, e la dolcissima voce di Tosca ci aiuterà a dare un senso emotivo agli interrogativi metafisici di Albert Einstein».
«Darkness…darkness. Darkness. L’oscurità vaga nello spazio eterno e la terra si è coperta di ghiacci. Nessuno poté più fare un passo fuori di questa notte scura», recita Popolizio, introducendo le doglie di Latona, e richiamando la paura messa in versi da George Byron in un poema del 1816, anno “senza estate” a causa dell’eruzione del monte Tambora, nelle Indie Occidentali olandesi, quando tanti cadono nel sonno, e dal sonno scivolano nel nulla.
«Due movimenti narrano la nascita di Apollo sull’isola di Delos», riprende Piovani: «Il parto di Latona, madre di Apollo, fu contrastato dagli dei perché era il frutto di una avventura adulterina di Zeus, una delle tante. Ma fu ostacolato anche perché Apollo è dio della luce, avrebbe portato luce e bellezza agli uomini e per le divinità, da sempre, la luce degli uomini non deve essere troppa. Oltre alla bellezza della luce, la cantata racconta anche la paura del buio, dell’oscurità che da sempre sgomenta gli uomini. Questa paura viene cantata sui versi di George Byron e attraverso quelli di “Black out”, una composizione di Cerami ispirata al black out americano del 2003».
«Blackout, black out…Il sole non nasceva più e le folle fissavano dove in fondo finisce l’asfalto o dove la collina è più nera del cielo o dove i fiori aspettano di schiudersi». Era il 14 agosto, quando iniziò uno dei più grandi black out della storia, con 55 milioni di persone lasciate d’improvviso al buio.
«La prima versione di questa cantata risale proprio a quell’anno. La scrissi su commissione del Ministero della cultura greco, per l’inaugurazione dei giochi olimpici di Atene 2004», ricorda Piovani: «La parte del narrante, oggi affidata alla voce fascinosa di Popolizio, allora era del grande attore greco Nikitas Tsakiroglouè». Al posto di Tosca c’era invece la cantante israeliana Noa. E quest’opera è anche, a sette anni dalla morte, un omaggio a Cerami, sceneggiatore de “La vita è bella” e di tanti racconti musicali realizzati col direttore d’orchestra: «Il modo migliore per omaggiare un artista è per me quello di far circolare i suoi lavori. A molti movimenti de “L’isola della Luce” Vincenzo ha dato il suo marchio, la sua inconfondibile cifra. Sono felicissimo di riprendere l’opera in mano anche per lui, perché chi lo ama ha il diritto di ascoltare questi versi proposti in passato una volta soltanto. E sono grato a Rai Cinque che registrerà l’opera e la includerà nel suo catalogo».
“L’isola della Luce” si chiude con l’Inno al Sole di Mesomere di Creta, del I secolo dopo Cristo: luce che vince sulle tenebre, e invito al risveglio, alla vita nuova. A ritrovare la speranza, come in quella Primavera che conclude la “Sinfonia delle stagioni”, composta da Piovani per il decennale del terremoto dell’Aquila, nel 2019.
«Quando scrivo opere lunghe, che consentono di compiere un viaggio attraverso le tenebre, mi piace approdare alla luce. Qui c’è il buio, si va incontro all’oscurità, si affronta la paura. Il conflitto luce-buio può portarci anche oggi, basandoci sulla scienza, a un giustificato ottimismo. Ma anche a coltivare un rapporto con l’esistenza più solare, più vitale. Considerare questa esistenza un passaggio, ritenerci in uno stato provvisorio, in viaggio verso altri aggregati molecolari, in zone dove spazio e tempo saranno due categorie secondarie, ci fa vivere bene. Questa vita va onorata godendola, a schiena dritta».
Un monito che vale anche anche per lo spettacolo dal vivo: «Il teatro, in passato, ne ha superate di peggiori: una grave pestilenza al tempo di Shakespeare fermò i teatranti per più di un anno. Sono sicuro che anche il teatro di oggi supererà questa funesta fase, in tutto il mondo». A patto di non tradire il suo pubblico: «Qualche teatro ha pensato bene di supplire alla riduzione delle poltrone vendibili con l’aumento del prezzo del biglietto. Questa mi sembra una politica scellerata: selezionare il pubblico a seconda delle possibilità economiche è l’opposto di quello di cui abbiamo bisogno. In un momento di difficoltà diffusa, i teatri, quelli pubblici, sovvenzionati, dovrebbero agevolare l’accesso agli spettacoli del pubblico in difficoltà, non puntare sulle aristocrazie del conto in banca. Così si allontaneranno sempre di più, fra l’altro, i giovani, il pubblico del futuro di cui i teatri hanno, secondo me, sempre più bisogno: è la funzione per la quale sono finanziati dal contribuente».
Provvisorie, simboliche, propiziatrici: le rappresentazioni dal vivo tentano con coraggio, nel frattempo, di tenere viva la fiammella. «Lo ripeto: io conto molto sulla primavera: mi piace immaginare che la clausura da Covid sia un brutto incubo appartenente al passato, una tragedia da ricordare nei teatri di nuovo affollati, pieni di gente che tossisce allegramente. Il 15 luglio terrò col mio gruppo un concerto a Roma, nella Cavea dell’Auditorium Parco della Musica. Anche questa data, nella mia città, spero sia una data augurale, in attesa che tutti i luoghi teatrali del mondo riprendano a risuonare di musica e di prosa, di comicità e di tragedia, di applausi e di fischi, di trionfi e di fiaschi: tutti rigorosamente dal vivo! Mi auguro che torneremo ad accalcarci al più presto, ne sento un gran bisogno, sia come musicista sia come spettatore. Al momento, non possiamo rimuovere la realtà: ma risorgeremo, tutti quanti, con l’aiuto della scienza e della medicina».
E magari anche di Apollo “guaritore”, non a caso il padre di Asclepio, venerato come il dio della medicina. E con gli auspici di Myrilla, come era denominato l’architetto Damocopos che progettò quel magnifico teatro di Siracusa, dove già Eschilo nel 476 avanti Cristo giunse per rappresentarvi le sue tragedie: Myrilla perché, appunto, aveva l’abitudine di spargere sui suoi monumenti unguenti preziosi e misteriosi come la mirra, perché portassero fortuna.