Tre mesi di sacrifici non considerati. Promesse fatte e non mantenute. Gli infermieri piemontesi ieri sono scesi in piazza a Torino, davanti alla sede della Regione per chiedere – anche al governo – il “giusto risarcimento”: aumenti di stipendio e premi che li ripaghino delle fatiche e dei rischi che si sono accollati lottando contro il coronavirus.Riassume il malessere degli “eroi non considerati” Francesco Coppolella, segretario del NurSind Piemonte, sindacato degli infermieri che ha organizzato la manifestazione: “A marzo Conte diceva che il nostro stipendio andava rivisto. Ad aprile parlava di bonus. A maggio è calato il silenzio”. Eppure le indennità notturne per chi lavora in terapia intensiva e affronta condizioni di disagio sono ferme al 1995, ribadiscono dal NurSind.In pratica, un infermiere che negli ultimi tre mesi ha lottato contro il Covid-19 mettendosi a disposizione per doppi turni, lavoro ad alta intensità, senza fare ferie o riposi, ha continuato a percepire uno stipendio di 1.500 euro o poco più. “Uno dei più bassi in Europa – ricorda Coppolella – con straordinari di poche decine di euro, calcolati sulla base di tabelle vecchie”.

Nessun riconoscimento dunque è arrivato finora per gli infermieri, categoria in cui si contano morti e malati di coronavirus, come tra i medici. Anche perché le trattative dei rappresentanti sindacali del personale sanitario con la Regione Piemonte sono appena iniziate. La questione riguarda i premi previsti dalla legge Cura Italia e dal decreto Rilancio (tra straordinari, indennità, premialità vere e proprie) con un fondo che a livello nazionale ammonta a 440 milioni, a cui si possono aggiungere 250 milioni da parte delle Regioni (queste ultime possono raddoppiare la quota a loro destinata dal Cura Italia, a patto che mantengano il pareggio di bilancio). Il governatore del Piemonte, Alberto Cirio, ha messo sul tavolo circa 55 milioni, tra risorse proprie e risorse statali. Ma è scontro sui criteri di ripartizione. Da un lato ci sono i sindacati autonomi di infermieri e medici che propendono per una distribuzione che riconosca prima di tutto chi ha operato in prima linea, tra terapie intensive e reparti di Infettivologia. Dall’altro, le sigle confederali, Cgil, Cisl e Uil, che vorrebbero assegnare il riconoscimento a tutti.

Un modello di distribuzione a pioggia, sulla falsariga di quello adottato da Luca Zaia, che ha optato per una ripartizione percentuale pro-capite, trovandosi di fronte il muro eretto dai sindacati autonomi dei medici dirigenti ma anche dalla federazione della Cisl-Medici, in contrasto con Cgil e Uil. In ballo in Veneto ci sono 61 milioni, che si traducono in una disponibilità netta di circa 45,8 milioni. Ma con il criterio adottato, ai medici va solo circa il 20% del fondo, mentre il restante è destinato al comparto, cioè al resto del personale sanitario, senza tenere conto del fatto che, per esempio, sui primi grava un carico fiscale più elevato. Cosa che ha portato i medici veneti a fare un po’ di conti: 300 euro netti a testa una tantum. “Questo è il valore di quelli che tutti, in piena emergenza, acclamavano come eroi”, dice il segretario nazionale dell’Anaao Carlo Palermo. Anche se nessuno ne vuole farne una mera questione di soldi, come spiega Adriano Benazzato (Anaao Veneto): “Ci rifiutiamo di firmare per come ci trattano: la considerazione nei nostri confronti non c’è, se non a parole”. Ma il fatto è che sui riconoscimenti si assiste a una vera babele: ogni Regione procede per conto proprio. Se il Piemonte ha aperto ora il percorso di negoziato con i sindacati e il Veneto si appresta a chiudere l’intesa senza un via libera unanime, ci sono quattro Regioni che i “patti” sulla ripartizione li hanno siglati – Emilia-Romagna, Toscana, Lazio e Umbria – mentre le altre sembrano essere ancora in alto mare. E in tutti e quattro i casi, gli accordi sono arrivati senza proteste.

In Toscana si è optato per una divisione che prevede circa il 40% per la dirigenza medica, con quattro fasce di riconoscimento legate al rischio. In Emilia-Romagna la quota è salita al 50%, ciò che rimane è destinato al resto del personale, tra infermieri, operatori socio-sanitari, tecnici di laboratorio.