Da adesso in poi il compito non è capire perché gli uomini siano capaci di un tale orrore, ma come riuscire a farlo terminare
di Francesco Piccolo
La sopravvivenza di un discorso umano in un mondo dove tutto si presenta inumano». È una frase che Italo Calvino pronuncia in una conferenza del 1976, e nella quale prende in qualche modo le distanze dal compito che da un po’ di tempo, secondo lui, è stato dato agli intellettuali, e nello specifico agli scrittori, sulle pagine dei giornali. A prescindere dall’importanza che avevano i giornali negli anni Settanta e da quella che hanno oggi, è una questione che ancora esiste, ed è il compito che ancora agli scrittori viene dato e che gli scrittori si prendono, come se fosse un automatismo. Se accade una violenza, un evento apocalittico, un atto terroristico, c’è il racconto vivo fatto da inviati, e poi c’è lo spazio dedicato al discorso umano che un pezzo di commento assolve dicendo ciò che è bene e ciò che è male, quanto gli esseri umani sono cattivi e come dovrebbero diventare buoni.
È da questo che prende le distanze Calvino dicendo, inoltre, che di solito il discorso umano consiste nel pronunciare affermazioni generali senza alcuna responsabilità pratica. Ed è questo il punto. Finora, fino all’inizio di questa guerra, e quindi da molti decenni, era possibile assumere il ruolo (opinabile ma legittimo) di chi svolge il discorso umano in un mondo inumano. Cioè, assumere il compito e il ruolo dei buoni. Tutto ciò è durato molti decenni. E per qualche incauto, dura ancora, in queste settimane. Ma in realtà questa guerra così vicina e complicata – nonostante la chiarezza di chi aggredisce e di chi è aggredito – ha spezzato un’abitudine a cui tutti sottostavano. Fino a quando l’inumano non si è presentato vicinissimo e più inumano, tanto da richiamarci a ciò che per decenni abbiamo ritenuto terribili fatti storici del passato (o fatti di terre lontane, e per chi voleva fare un discorso umano era già contraddizione cocente), era molto facile essere buoni. Soltanto durante la guerra dell’ex Jugoslavia avevamo assaggiato l’inutilità del discorso generico e buono – ma eravamo stati in grado di ripristinarlo in fretta.
Adesso, forse, e il discorso umano si è frantumato per sempre. Abbiamo imparato a conoscere i nomi di ogni inviato di ogni quotidiano o di ogni telegiornale, e abbiamo reso giustizia alla grandezza del giornalismo sul campo; ma le voci di commento – se non sono di esperti, e quindi non generiche – si stanno spegnendo. E non ne sentiamo la mancanza.
La parola pace pronunciata in modo generico andava bene in tempo di pace; ma adesso è una parola molto più complessa e difficile da districare. Troppo complesso dover accettare la necessaria ipocrisia di vedere violate leggi invalicabili che hanno regolato i rapporti tra le nazioni per decenni e reagire con le sanzioni sul carbone e solo alcune sul gas. Troppo terribile il pensiero di entrare in guerra per difendere diritti e civili, e troppo terribile il pensiero di accettare inermi l’orrore. Troppo difficile anche accettare l’idea (che bisogna in qualche modo accettare) di negoziare con Putin e trovare un compromesso; troppo incauto e generico definirlo Hitler e co n questo voltare le spalle all’orrore. Qualsiasi affermazione generica, qualsiasi discorso umano, sbatte contro dubbi e problematiche complesse. Basti pensare a cosa succede in quella settimana intanto che diciamo che con incontri diplomatici tra una settimana si potrebbe trovare una soluzione. Vogliamo non essere coinvolti, vogliamo stare lontani dalla guerra, vogliamo che finisca l’orrore, vogliamo che non si valichino i confini dei diritti umani. Ma siamo già dentro a tutto questo, e i mezzi per uscirne sono molto diversi e più complicati di quelli che avevamo prima di entrarci.
Questa guerra ha fatto in modo che non ci sia più spazio per il discorso umano generico, quello che va bene per qualsiasi evento tragico o fatto di cronaca, con il quale si rassicurava il lettore dicendogli siamo entrambi buoni, e quindi a noi non potrà succedere nulla. Da adesso in poi il compito, tutt’altro che generico, è di capire: non come sia possibile che gli uomini siano capaci di tutto questo, ma di come farlo finire.