Che relazione c’è tra la diffusa percezione di crescita delle disuguaglianze e l’avanzata dei movimenti populisti? Quali sono le differenze rispetto al secolo scorso, quando la sinistra sapeva occupare con grande abilità il campo dei disuguali e legare il riscatto sociale al cielo della politica? Quali differenze ci sono tra i movimenti populisti francesi e italiani? Abbiamo sufficienti elementi per tracciare una sociologia del populismo? A queste e altre domande centrate sul nesso tra disuguaglianza e populismo hanno cercato di rispondere a Milano, su invito della Fondazione Corriere della Sera, Maurizio Ferrera, firma del quotidiano di via Solferino e politologo dell’Università statale di Milano, e il collega francese Marc Lazar, docente a Parigi Sciences Po e all’università Luiss di Roma.
MAURIZIO FERRERA — Penso che occorra partire dalle caratteristiche differenti della disuguaglianza nel periodo attuale. La novità è che non si sono allargate solo le distanze tra le fasce di reddito, quelle che vengono misurate con l’indice di Gini, ma si è verificato questa volta anche un arretramento individuale. Un peggioramento della condizione di milioni di persone che ha dato origine a un sentimento profondo di deprivazione relativa, che a sua volta si è tradotto in aggressività sociale e politica. L’arretramento è stato trasversale rispetto alle classi tradizionali, non hanno perso tutti gli operai, ma le tute blu dei settori più esposti alla concorrenza internazionale. Non hanno perso i dipendenti statali e i pensionati sono arretrati molto meno degli occupati e dei giovani in cerca di lavoro. Questo caleidoscopio di effetti non ha permesso che lo scontento si aggregasse come nel Novecento e utilizzasse i corpi intermedi: questa volta ha prevalso la ricerca dei colpevoli, del capro espiatorio. E il populismo ha saputo indicare obiettivi facili: le élite e gli «altri», ovvero gli immigrati. In definitiva penso che il successo del populismo si debba innanzitutto alla crescita del sentimento di deprivazione relativa e all’esaurimento delle narrazioni novecentesche.
MARC LAZAR — Alexis de Tocqueville ci ha raccontato come in Francia esistesse una particolare passione verso l’uguaglianza, ma oggi questa passione si è diffusa in tutta Europa, persino in Germania o nella Repubblica Ceca, dove i dati economici sono buoni. Tra i tedeschi l’87 per cento degli intervistati di un’ottima ricerca, Dove va la democrazia? , si dichiara molto preoccupato per la disuguaglianza, a Praga il 75. Storicamente i populisti si professavano liberisti, oggi si presentano come difensori di chi soffre e propongono la tutela dello Stato sociale, anche se in una formula esclusiva, ovvero riservata ai connazionali. E così il Front national ha potuto recuperare progressivamente il voto della sinistra che veniva dalle zone industriali, ma non c’è una spiegazione unica della forza dei populisti: ci sono molti fattori politici, culturali e religiosi. Dopo la vittoria di Emmanuel Macron in Francia si è detto che Marine Le Pen era finita, io non credo. Tutti gli ingredienti del populismo sono ancora lì e possono essere tuttora utilizzati anche in Francia.
Semplificando si può dire che nel populismo francese prevale l’elemento di protezione sociale, mentre in quello italiano l’agenda si apre con la critica della politica?
MAURIZIO FERRERA — Prima di Beppe Grillo il populismo italiano è stato a lungo rappresentato dalla Lega e in misura minore da Silvio Berlusconi. I 5 Stelle però sono emblematici come formazione politica, perché hanno saputo cavalcare l’aggressività generata dalla disuguaglianza, indirizzandola verso un aspro conflitto con le élite. La contrapposizione tra «noi e loro» ha dato vita a un’idea tutta orizzontale della democrazia, come se non ci fosse bisogno di un’organizzazione verticale capace di prendere decisioni. Si tratta di un enorme equivoco sul funzionamento delle democrazie, un magma fatto di anti-elitismo verticale e di confusione orizzontale al massimo grado: infatti sul sito del Movimento 5 Stelle si può trovare tutto e il suo contrario. Se Podemos e Syriza sono di sinistra, mentre Le Pen e l’olandese Geert Wilders sono sicuramente di destra, i grillini sono una cosa amorfa dal punto di vista della distinzione destra-sinistra.
MARC LAZAR — Le Pen padre era liberista, Marine è per la protezione e per la spesa pubblica, ma non spiega come tenere in equilibrio i conti pubblici. C’è però un’altra dimensione: lei si presenta come una donna moderna, divorziata, ha due figli, fa l’avvocato e anche in questo caso assistiamo a un rovesciamento dell’identità della destra tradizionale. Un piccolo gruppo di tradizionalisti ha organizzato una manifestazione contro quello che chiamano il matrimonio per tutti (le nozze gay, ndr ) e Le Pen non ci è andata perché ha capito che chi vota per lei se infischia di queste cose. Dal canto suo Jean-Luc Mélenchon, di formazione trotskista e poi socialista, nell’ultima campagna elettorale ha cambiato totalmente posizione, si è ispirato ai modelli populisti dell’America Latina. Il popolo contro la Casta, non più destra contro sinistra. Mélenchon è più simile ai 5 Stelle e infatti è orientato a ristrutturare la sua organizzazione. Al ballottaggio non ha dato consegne di voto perché sapeva che il suo elettorato si sarebbe diviso, tra chi sceglieva Macron per un vecchio riflesso antifascista e chi considera invece il liberismo peggio del fascismo. È interessante anche la sociologia del voto. Per Le Pen hanno votato molti operai, per Mélenchon c’è il voto degli strati bassi della funzione pubblica, molto importante in Francia. Entrambi i partiti hanno avuto successo tra i giovani della fascia 18-24 anni, ma il Fn soprattutto tra i giovani con basso livello di istruzione, mentre con Melenchon troviamo i giovani laureati nelle università di massa, senza numero chiuso. I giovani pro-Macron vengono invece dalle Grandes Écoles e dalle business school . Il livello di istruzione si presenta quindi come una variabile esplicativa del voto.
MAURIZIO FERRERA — Il legame tra fattori di contesto, atteggiamento di chiusura e voto populista non va esaminato schematicamente, esistono anche una serie di filtri che differenziano le reazioni. Se sei un lavoratore a bassa qualifica che vive in un settore non esposto alla concorrenza internazionale, può darsi che tu non abbia perso il lavoro e nessuno della tua famiglia l’abbia perso: questa situazione ti vede meno propenso a votare populista rispetto ad altre famiglie che hanno affrontato la disoccupazione senza godere di sussidi. In Italia siamo particolarmente vulnerabili, perché il nostro welfare è spostato sulle pensioni e prevede pochi sussidi per i giovani, per chi perde il lavoro e chi ha tanti figli. Un secondo filtro riguarda la vita associata. Se partecipi all’attività delle organizzazioni e fai attività regolare, sei iscritto al sindacato, anche semplicemente leggi i giornali e parli di Europa o ancora hai fatto un viaggio all’estero, tutto ciò abbatte la propensione allo sciovinismo e alla chiusura, anche a parità di basso livello di istruzione. Questo ci dà un barlume di speranza, perché ci fa intravedere come ci siano azioni mirate da mettere in campo.
Abbiamo esaminato le questioni di ordine socio-economico e la relazione con la politica, parliamo ora dei valori. Di fronte all’offensiva del populismo si diffonde la sensazione di essere a una sorta di Anno Zero. Non ci sono narrazioni politiche competitive e la stessa adesione al principio di democrazia sembra messa in discussione.
MAURIZIO FERRERA — L’individualizzazione dei bisogni e delle aspirazioni, descritta in letteratura da Norbert Elias e più recentemente da Zygmunt Bauman, amplificata dai social network, rende più difficile far appello a valori di condivisione per giovani che hanno questo tipo di vita, frammentata e spacchettata. L’ultimo tentativo di immettere nel mercato delle idee una cornice valoriale diversa da quelle classiche del Novecento è stato la Terza via di Tony Blair. Quella visione piaceva perché metteva assieme l’idea dell’importanza di scegliere con le necessarie legature sociali e le rivisitava in una chiave di uguaglianza. Il progetto di Blair per essere credibile e incisivo aveva bisogno di una condizione: che ripartisse l’ascensore sociale. Di qui l’enfasi dei laburisti britannici sull’istruzione e la formazione professionale, ispirata all’ultimo periodo della storia del Novecento, gli anni Sessanta-Settanta, nel quale c’è stata mobilità sociale grazie all’istruzione di massa che ha consentito un salto mai fatto nei vent’anni precedenti e mai ripetuto dopo. La chiave è ancora lì.
MARC LAZAR — I populisti ora si presentano come democratici, in passato, nell’intervallo tra le due guerre, erano ostili alla democrazia. Oggi si dichiarano difensori della democrazia diretta e credono nei referendum. Propongono una democrazia immediata realizzata grazie alla tecnologia e il Movimento 5 Stelle è, nell’ambito dei partiti populisti, quello che ha sviluppato con maggiore originalità questa tendenza, infatti ha ispirato lo stesso Mélenchon. Nell’indagine di cui ho parlato, il 33 per cento dice che forse esiste un altro sistema equivalente alla democrazia, una risposta ambigua. Nelle altre risposte, specie tra i giovani, emerge che un regime più autoritario potrebbe essere anche accettato. Di fronte a questi riscontri dobbiamo ammettere che esiste un’interrogazione sul valore della democrazia e di conseguenza bisogna riprendere una narrazione che ne affronti i problemi di trasparenza e di organizzazione dei sistemi democratici. Ad esempio Macron sbaglia, secondo me, se abbandona la parola d’ordine della democrazia partecipativa e si presenta come un monarca repubblicano. Il politologo Pierre Rosanvallon sostiene che la gente non può aspettare 4-5 anni per votare e dire la sua, che bisogna trovare forme attraverso le quali il cittadino possa essere coinvolto tra un’elezione e l’altra. Non dimentichiamo che la democrazia si è affermata tra gli europei solo quando si è accoppiata a pace, prosperità e giustizia sociale. La situazione attuale riapre il dibattito: siamo a favore della democrazia perché ci sentiamo garantiti dal welfare sul nostro livello di vita o perché ci crediamo come valore assoluto? Credo che una parte del successo del populismo risieda in questa operazione: interroga gli europei sul nostro sistema di valori e questa domanda finisce oggettivamente per intercettare le sfide rappresentate dall’immigrazione, dalla presenza dell’Islam e dagli attentati.
Ci interroga e non ci trova adeguatamente preparati. Si sente la mancanza di un’elaborazione convincente su queste materie.
MARC LAZAR — Noi europei siamo molto aperti, accettiamo la diversità e le altre religioni, ma i due modelli con i quali l’accoglienza si è dispiegata, ovvero il multiculturalismo del Nord Europa e il modello repubblicano francese, sono entrambi in crisi e la sfida per noi diventa reinventare modelli di integrazione in un contesto molto più difficile dal punto di vista demografico. Il populismo gioca anche sulla paura dell’Islam e del resto ci sono avuti in 15 mesi la metà delle vittime causate dal terrorismo rosso e nero in 15 anni. Un trauma molto forte. Tanto che avevo paura di rappresaglie in Francia contro le comunità musulmane, e sono contento di essermi sbagliato perché tutto sommato non è accaduto. Vuol dire che i francesi sono riusciti a distinguere tra quelli che mettono le bombe e la maggioranza dei musulmani, ma la grande scommessa per le nostre società diventa «i musulmani sono disposti a denunciare quelli che sono pronti ad abbracciare il terrorismo?». Dobbiamo accettare l’idea che ormai abbiamo una pluralità di religioni, però non possiamo accettare che si rimettano in discussione delle nostre regole. Se i musulmani moderati non rispondono su questo punto, si crea terreno facile per la propaganda del populismo.
Forse anche perché siamo diventati occidentali riluttanti. Sembra che la democrazia occidentale la debba difendere solo l’intelligence.
MAURIZIO FERRERA — Direi democrazia liberale, espressione che contiene in sé sia il costituzionalismo sia il suffragio universale. In Ungheria e Polonia le destre oggi discutono proprio questo. Tornando all’islam, l’intellighenzia musulmana non ha mai operato un’operazione di esegesi critica dei testi sacri. Nessuno nelle facoltà cattoliche di Teologia pensa che la Bibbia vada interpretata alla lettera, mentre i dotti islamici a proposito del Corano pensano di sì. Non accettano l’idea che le regole letterali dei testi sacri erano appropriate per quel tempo e non per oggi. Quelli che hanno avuto il coraggio di affermarlo sono stati imprigionati. Purtroppo non possiamo aspettarci che le élite intellettuali teocratiche ci possano aiutare in un lasso di tempo utile. E allora possiamo contare solo su un processo di secolarizzazione delle giovani generazioni musulmane.
Domenica 4 Febbraio 2018, La Lettura.www.corriere.it/la-lettura/