Europa, 1927. Il continente sta ancora cercando, per quel che può, di dimenticare gli orrori della Grande Guerra, ma lo fa in modo immaturo, sconveniente, inadeguato. Non ci sono riflessioni spirituali serie e profonde, c’è solo una grande fretta, una grande frenesia tipica della vita moderna; non si affronta il dolore che c’è stato, si cerca di dimenticarlo, correndo forsennatamente chissà dove. L’intellighenzia europea continua a rimasticare annoiata e pedante gli stessi concetti di sempre, professori esangui e libreschi preparano diligentemente le loro conferenze e le loro lezioni, senza rendersi conto che tutto ciò di cui parlano, tutto ciò in cui credono, è già finito, morto e sepolto dietro di loro. La cultura non fa più vita, non è più creduta, non è più di riferimento a nessuno; la vita di ciascuno si perde in un segreto e inconfessabile spaesamento, in una tragica epoca di mezzo in cui i vecchi valori sono al tramonto e non ce ne sono ancora di nuovi che orientino la vita. Pochi sono pronti a credere che un tale stato di confusione e di vuoto spirituale sia il retroterra perfetto per una nuova guerra. Tutti avvertono in quell’epoca qualcosa di sinistro e inquietante, ma la maggior parte della gente soffoca questo amaro sentore dentro di sé, finge che la vita sia normale e che quella società abbia senso. Solo in pochissimi avvertono chiaro dentro di sé la portata e la vastità di quel dramma, scontandolo come sale sulla loro ferita, in modo viscerale, lancinante. Harry Haller, il protagonista de Il lupo della steppa, romanzo tra i più riusciti di Hermann Hesse, è uno di questi sfortunati che vedono con lucidità implacabile la propria vita e la propria epoca. Un’epoca che di fronte alla catastrofe ha fatto finta di niente e che pertanto si è già tacitamente rassegnata alla catastrofe successiva, alla nuova guerra. La catastrofe in troppi non ha determinato un risveglio interiore, ma un’ulteriore anestesia dell’anima. Per chi sa vedere, è facile prevedere come andrà a finire.
Harry Haller è un intellettuale europeo tipico della sua epoca, per quanto un temperamento un po’ indolente e alcune circostanze della vita gli abbiano impedito di diventare davvero professore. Ha cinquant’anni, e li ha passati quasi interamente a studiare, è appassionato della grande poesia e della grande opera tedesca. I suoi numi tutelari sono Goethe e Mozart. Per alcuni anni felici della sua vita non ha dubitato che i valori dell’umanesimo europeo fossero giusti, che il destino dell’Europa fosse di pace e prosperità e che quell’idea di liberazione avrebbe alla fine coinvolto tutto il mondo. Poi la sua vita di pacato borghese europeo è sconvolta dalla Grande Guerra. Ciò che lo sconvolge non è la guerra in sé, ma il modo in cui quasi tutta l’intellighenzia europea e in particolare tedesca fa il tifo per la guerra, tacciando di miopia, egoismo e irresponsabilità civile chiunque abbia un punto di vista diverso. Ciò che lo costerna è vedere come, in nome della razionalità scientifica, vanto dell’Europa, si possano legittimare i comportamenti più cinici e le aberrazioni morali più conclamate. Non è difficile scorgere qui un chiaro riferimento autobiografico dello stesso Hesse, che durante la Prima Guerra subì l’ostracismo di tutta l’intellighenzia tedesca per i suoi articoli pacifisti e non interventisti. Tutto ciò innesca in Haller tragici e tremendi ragionamenti. Capisce che se la cultura europea ha potuto applaudire alla guerra, se gli intellettuali e i cattedratici che egli stimava e venerava si sono potuti confondere in questo modo, è perché è questa stessa cultura, in cui lui è nato e cresciuto, ad essere profondamente falsa e menzognera, un gigante d’argilla le cui certezze apparentemente granitiche stanno per crollare dalle fondamenta, portando con sé tutte le vecchie istituzioni.
Haller legge Nietzsche, legge Einstein. Capisce che la scienza e la filosofia che reggono quel vecchio e rassicurante mondo borghese sono già morte senza appello, e una filosofia e una scienza nuove sono ancora ben al di là dall’essere pienamente comprese. Tutti segretamente sanno queste cose, ma la maggior parte continua a far finta di niente. Ma poiché l’adesione a questi vecchi principi sociali oramai non è più determinata dalla sincera convinzione ma dal conformismo, non ha più un profondo contatto con il proprio fondamento ma si ripete stancamente, come un automatismo, tutto della vita della borghesia europea in cui vive gli appare agghiacciante e mortifero, insopportabile. Egli vive tra i borghesi ma da accattone, frequenta dotti universitari ma è nauseato dai loro discorsi, assiste a noiose conferenze capendone l’inanità. Ogni tanto lo prende una dolce nostalgia per la sua dolce infanzia borghese, per Mozart, per Goethe, ma poi si ricorda che quel mondo oramai è irrimediabilmente alle spalle, e via via si chiude sempre più in se stesso, perdendo fiducia di poter davvero comunicare con qualcun altro. Si convince che dentro di sé alberghi una personalità nascosta, in cui identifica tutti gli istinti vitali che ha sempre represso, nascosto e soffocato in nome della sua educazione borghese: chiama questa parte inconfessabile di sé Il lupo della steppa, che vaga in questa cosiddetta società civile con una perenne nostalgia della natura, dell’istinto, di un’esistenza più primitiva ma certo più autentica. Questa solitudine gli fa talmente detestare la vita da fargli meditare il suicidio, ma la sua congenita paura borghese della morte lo arresta ogni volta ad un passo. Si trova così sospeso in un inferno di paura, tra l’impossibilità di vivere e quella di morire. È proprio a questo punto di glaciale disperazione che incontra Erminia.
Erminia, che sin dal nome si mostra come un alter ego femminile dell’autore, che il protagonista incontra in una bettola casualmente, sin dall’inizio sembra leggere nel suo cuore con una chiarezza implacabile. Un po’ mamma, un po’ mistica, un po’ femme fatale, Erminia smaschera la grottesca pantomima di Harry: subito gli chiede di ballare, ed egli deve ammettere imbarazzato di non aver mai imparato a ballare. Così lei gli chiede, provocatoriamente:
“Come puoi dire di esserti sforzato di vivere, se non vuoi neanche ballare?”
In una frase, Harry vede davanti a sé tutta la parte della sua natura che ha tentato di azzittire in cinquant’anni di falsa vita borghese. Vede l’eccentrico, l’anormale, l’eccedente, il dionisiaco. La ragazza è sfuggente, ma Harry sa di poterla rivedere e ciò riaccende in lui un ancora fioco gusto per la vita, un senso di aspettativa, di attesa, che non avvertiva più da molto tempo. Da quel primo incontro Harry prende da Erminia lezioni di ballo, e, con sua grande sorpresa, in poco tempo la sua goffaggine e la sua inettitudine spariscono. Fino ad allora aveva vissuto solo con la testa, ed il suo corpo era stato fermo, irrigidito, paralizzato. Ora il corpo è nato a nuova vita, attraverso il contatto con la pelle di Erminia e lo sguardo nei suoi occhi riceve energie nuove, un nuove entusiasmo verso le cose. Se per anni attorno a sé non aveva creduto di scorgere che morte e sguardi vuoti, finalmente ora ha riconosciuto fuori di sé la vita, uguale alla sua eppure sempre diversa, e conoscendola in una persona ora ha imparato a riconoscerla dovunque, in ogni luogo, in ogni vicolo, in ogni volto. Ora che il suo corpo e la sua mente vanno insieme, la sua persona ha ritrovato un’armonia, un’unità. Muovendosi, ballando, il corpo si rivitalizza e la mente si ossigena, respira, vede le cose con una nuova lucidità, una fulgida chiarezza. Improvvisamente, non gli interessa più della Storia, dell’epoca, della decadenza- tutto ciò non gli sembra meno vero ma gli appare anche un po’ un alibi, una retorica. Ora lui sa che lì, in quell’istante, mentre balla con Erminia, la felicità è possibile, la felicità è presente, si può toccare. Come diceva Nietzsche all’inizio di Al di là del bene e del male? Si chiedeva “se la verità fosse una donna? Se i filosofi, fallendo nella loro ricerca della verità, fossero solo stati inesperti in fatto di donne?” Il tentativo di cogliere tutta la verità dentro la propria testa, sublime chimera dell’uomo occidentale, è fallito, si dice Harry. Ma questa non è la fine della vita! Questa non è la fine del mondo! Dentro gli occhi di un altro, nel contatto con un altro corpo, nell’estasi del ballo in cui i confini dell’io e del tu si tendono fino quasi a toccarsi, a pervenire ad un’unità, lì si può ancora fare esperienza della verità. È un cambiamento completo di mentalità, di atteggiamento verso la vita, di modo di vivere insieme, di pensare una civiltà ed i suoi fini. La verità non è più solo nella conoscenza scientifica -la cui attendibilità si è mostrata quanto mai malferma, effimera, provvisoria-; la verità è nell’amore, nello stare insieme in modo profondo e concreto, spirituale ma palpabile. La verità non sta più nel soggiogare la natura, ma nel vivere armonicamente dentro di essa; non è più nel controllo, nel calcolo, nello schema; ma nell’affidamento, nel lasciar essere. L’individuo non è più un cervello disincarnato che scruta il mondo, lo giudica, lo cataloga; ma è un’unità indissolubile di mente e corpo che deve ogni giorno esercitare ed allenare la sua profonda connessione con gli altri, con le cose, con la natura.
Harry grazie a Erminia ha un sacco di esperienza che nella sua vita libresca e solitaria non aveva mai vissuto: oltre alla gioia del ballo, vive la passione vera con una donna di nome Maria, comincia a capire la musica jazz, conosce l’ebbrezza e la gioia della festa, comprende l’importanza dei vestiti e dell’abbigliamento che valorizzano i corpi, perde tutte le sue antiche inibizioni borghesi. Passo dopo passo le sue nevrosi scompaiono. Ad avere ragione della sua paura alla fine non è la ragione, ma la vita. Lo spettro del suicidio si eclissa dietro di lui non grazie ad un ragionamento convincente, ma grazie ad una serie di esperienze che riattivano, risvegliano il desiderio troppo a lungo sopito dentro di lui di vita, di eros, di pienezza. Energie nuove si svegliano dentro di lui ben al di là di quanto possano capire o comprendere i suoi pallidi sillogismi. Comprende che la vita è un gioco oppositivo tra desiderio e paura, e che tanto più ci si fida del desiderio, lo si segue, lo si asseconda, quanto più la paura dentro di sé si rattrappisce, perde di forza, muore di inedia, e le ragioni di cui si serviva paiono via via svuotate, prive di significato. Tutto questo non è irrazionalismo: non si tratta infatti di spegnere la testa per diventare puro corpo, puro istinto (cosa peraltro impossibile), ma di far andare il corpo e la mente insieme, riconciliarle, lasciare che la mente assolva la sua funzione, cioè quella di permetterci di rispondere agli stimoli del reale, senza che si separi dal corpo perdendosi in fumose elucubrazioni e folli incubi d’irrealtà. Non si tratta di rinunciare alla ragione, ma di riconoscere che la ragione, quando è sana, quando coglie la verità, lo fa in forza di un’esperienza di comunione, di un atto di amore ricevuto. L’amore è l’inizio di tutto; non è l’amore ad essere un parto degenerato e sentimentale della ragione, come ha preteso per secoli certo razionalismo europeo. Al contrario, è la ragione a prendere le mosse dell’amore, che non è un vago sentire ma è fondamento ontologico della ragione e della realtà, luogo concreto della loro corrispondenza. Il primo atto della vita umana non è già pensare astrattamente, ma essere amato; non è controllare, capire, conoscere, ma al contrario affidarsi, fidarsi, abbandonarsi. Perciò l’amore precede e fonda la ragione, non il contrario.
Harry capisce tutto questo, e per lungo tempo gli sembra che Erminia sia una matrona infallibile, da cui lui deve solo imparare l’arte di vivere e a cui deve ciecamente obbedire. Ma dopo un po’ gli pare che anche questa gioia di vivere, di appagarsi dell’istante, fuori dal tempo e dalla storia, non sia ancora la pienezza, la verità tutta intera. Erminia l’ha restituito al suo corpo, l’ha fatto congedare da quel professore nevrotico e represso e gli ha permesso di frequentare l’altro lato della vita, che egli aveva sempre trascurato e temuto. Le donne, la passione, la festa, il ballo, l’ebbrezza, i begli ornamenti. Ma ora egli ha la forza e la consapevolezza per tornare dal vecchio professore che è stato, vederne le bellezze oltreché le miserie: ora può finalmente perdonarsi, riconciliarsi con il passato, darsi pace per ciò che è stato. Ora, alla luce della sua esperienza di vita vissuta, finalmente, il patrimonio culturale a cui si era abbeverato per anni smette di sembrargli imbalsamato e smorto, retoricamente serioso, e gli appare per quel che è: una celebrazione incessante di quella stessa vita che lui ha vissuto con Erminia, solo colta nei suoi momenti di maggiore intensità, depurata dal superfluo del quotidiano, riscattata dalla fugacità del tempo. Egli sogna Goethe ed ora lui gli appare tanto diverso dall’immagine retorica e mortalmente seria che aveva studiato e scioccamente venerato; sogna Goethe ed egli gli appare per quel che è: non un idolo, ma un uomo, la cui essenza di artista consisteva solo nell’aver ascoltato più profondamente di altri la propria umanità, nell’essersi fidato della vita più di altri. Goethe in sogno non gli fa grandi prediche morali, né noiose paternali: lo incalza, lo provoca, lo stuzzica; ride. Harry sa che l’ironia ha sempre un retroterra di disperazione, di disincantamento. Per ridere di tutto non bisogna più credere in niente; si ride della vanità, perciò si ride di tutto solo se si pensa che tutto sia vano. Ma la risata di Goethe non è ironica, sardonica, disperata; è una risata che salva ancora qualcosa dalla vanità, dal nulla; è la risata di quelli che Hesse chiama gli immortali. Costoro hanno colto, come Haller in quei giorni con Erminia, il nocciolo della vita, tutta la bellezza delle cose, il segreto ritmo di ogni essere, la sua struggente armonia. L’hanno saputa cogliere in ogni donna, ogni libro, ogni viaggio, ogni evento, anche il più piccolo e senza importanza. Hanno visto oltre la superficie delle cose, e non vi hanno trovato una cieca e insensata coazione a ripetere la propria esistenza biologica, come Schopenhauer; vi hanno trovato l’amore, hanno intravisto in esso la vera sostanza del mondo, la vera struttura eterna della realtà. La risata del Goethe onirico che appare ad Haller allora non è ironica, ma umoristica– una risata che sa che solo una cosa conta e va presa sul serio, l’amore; e che di tutto il resto si può ridere. Goethe allora ride di Haller, dei suoi libri di cui era stato tanto orgoglioso, delle sue pubblicazioni, delle sue conferenze, della sua erudizione borghese, perché anche la cultura ha valore solo nella misura in cui ha a che fare con l’amore. L’immortalità di Goethe non ha nemmeno a che fare con la sua fama letteraria, non va confusa con la posterità, che è ben poca cosa; ma è qualcosa che si guadagna vivendo intensamente la propria vita, cercando ogni giorno di forzare il nocciolo angusto dell’io per vivere in una costante comunione con tutti e tutto; squarciando l’apparenza di vuote formalità per aderire ogni momento all’amore, al vero fondamento nascosto dentro ogni cosa ed ogni persona. Tanti artisti hanno guadagnato questa immortalità, ma anche tante persone comuni, di cui non si sa nulla. Questa palpitante verità della vita degli artisti viene tradita sistematicamente dalla loro istituzionalizzazione, che li trasforma in idoli esangui venerati da esangui studiosi. È la stessa idealizzazione sterile che Erminia, dialogando con Haller, dice di aver spesso riscontrato nei santi della Chiesa.
Haller allora vede le sue due metà che ora si ritrovano, si riconoscono, si instradano nella stessa direzione. Il lupo della steppa ha vissuto la vita che lo studioso borghese non aveva mai osato cogliere; lo studioso coi suoi libri riconduce quei meravigliosi istanti alla loro tensione verso l’eternità, la comunione con gli immortali, vero fine della vita. L’uno senza l’altro si sarebbe perso; il lupo nell’istante e nello stordimento dei sensi, lo studioso nella folle collezione di libri senza vita. Insieme ora si ricongiungono nell’unità di un uomo. La sera del ballo in maschera Haller si incammina in un lungo corridoio, subcosciente e onirico, in cui stanno una serie di porte con scritte invitanti. In una combatte una visionaria guerra tra uomini e macchine, che secondo lui è imminente, schierandosi dalla parte degli uomini; in un’altra un vecchio saggio gli mostra la molteplicità della sua persona e la segreta vocazione che ogni parte di sé stesso esige, la necessità di vivere tante vite in una, di far danzare ed esistere ogni sua dimensione (lo studioso, il ballerino, il seduttore, il viaggiatore); in un’altra ancora, la più seducente e, diremmo oggi, felliniana, sogna di amare di un amore carnale e vivo tutte le donne che nella sua vita aveva soltanto intravisto, incrociato con lo sguardo, lambito, sfiorato, desiderato. Ognuna gli insegna qualcosa, ognuna gli mostra un nuovo angolo di mondo e qualcosa di inaspettato e sorprendente di se stesso. È struggente e meraviglioso l’amore con la prima ragazza, quella di cui si era innamorato a quindici anni e a cui non aveva mai avuto il coraggio di dichiararsi.
“Così era stato quella volta, una domenica di trentacinque anni prima e così tutto ritornava in quell’istante: il colle e la città, l’aura di primavera ed il profumo delle gemme, Rosa e i suoi capelli castani, l’onda della nostalgia e l’ansietà di quella dolcezza. Tutto era come allora e mi pareva di non aver mai più amato come avevo amato Rosa in quei tempi. La vidi arrossire nel momento in cui mi riconosceva, vidi il suo sforzo di nascondere il rossore e compresi subito che mi voleva bene, che l’incontro significava lo stesso che per me. E invece di togliermi il cappello e di aspettare solennemente con il cappello in mano che fosse passata, nonostante l’angoscia feci quello che il sangue mi diceva di fare (…). Rosa non prese le arie da signorina e non andò avanti; (…) e gli occhi bruni mandarono lampi dal viso regolare e io sentii che tutta la mia vita passata era stata falsa e confusa e disgraziata dal momento in cui quella domenica avevo lasciato che Rosa passasse oltre. Ora invece l’errore era rettificato e tutto il resto andò bene.”
E, una dopo l’altra, passano tutte le chiamate della vita che egli aveva disatteso, e la paura ogni volta si fa più labile e inconsistente via via che si abbandona a nuovi abbracci, a nuove carezze, a nuovi baci. Tutta la vastità della vita gli si schiude davanti e finalmente capisce che tutto è più grande di lui ma allo stesso tempo tutto è per lui, è sempre stato per lui, sin dal primo istante. Era stato lui a chiudersi in una gelida torre d’avorio, ma, se soltanto fosse stato meno distratto, si sarebbe reso conto di quanto era stata generosa e calda con lui la vita! Ed ecco che sgorga un sentimento nuovo e celestiale, il più nobile e il più difficile fra tutti: il perdono di se stessi, il senso di redenzione, la gratitudine.
Non è chiaro se alla fine Haller sia in grado di rispondere appieno alla chiamata della vita, se egli riuscirà mai ad amare l’ultima e più decisiva donna, quella che lo aveva salvato, Erminia. Il finale del libro è, come tutto il testo, chiaroscurale, ambiguo, allusivo, allucinato. Questo forse ha prodotto tanti fraintendimenti tra i lettori, sin da quando il libro assurse a manifesto del ’68 e poi anche oltre. Val forse la pena citare cosa pensasse a questo proposito Hesse. In una nota, una volta, lamentando che Il lupo della steppa era il suo libro certamente più frainteso, specie dai lettori giovani, concludeva così:
“Io non posso e non voglio, beninteso, prescrivere ai lettori come abbiano a intendere il mio racconto. Ne faccia ognuno ciò che risponde e serve al suo spirito! Mi piacerebbe però se molti di loro notassero che la storia del lupo della steppa rappresenta, sì, una malattia e una crisi, ma non verso la morte, non un tramonto, bensì il contrario: una guarigione.”
Forse ciascuno di noi, abitanti spaesati di un’Europa sempre più fragile, siamo chiamati a compiere ciascuno, in modo autonomo e personale, questo stesso percorso di guarigione. Forse molti di noi l’hanno già intrapreso. Credo sia l’unico modo per non fare finta di niente, per non lasciare che ad una catastrofe ne seguano altre, magari peggiori; per tornare ad essere in un genuino contatto, ogni giorno, con la potente energia che sta alla base della vita, della società, che cementa i rapporti tra persone, che fonda e legittima le leggi, i doveri, i valori. Prima di questo percorso interiore, ogni altro cammino -dalla politica alla ricchezza all’accademia al lavoro- sarà viziato da una bugia, non ci porterà a niente. È una strada tortuosa. Ma è, io credo, l’unica che abbiamo.