Il violino di Jimi Hendrix.

Da bambino sognavo di avere un violino. Ci pensavo sempre, era un’ossessione. Costruivo piccoli giocattoli con pezzi di legno ed elastici dai quali riuscivo a tirar fuori dei motivi. Poi, a un certo punto dissi a mio padre che ero stufo degli elastici, volevo un vero violino.

Sono nato nel 1941, in piena guerra. A quell’epoca i violini cinesi non esistevano e uno strumento costava una discreta fortuna. Quindi il mio sogno di possedere un violino veniva sempre rimandato. Ma un giorno, quando avevo 3 anni, nel 1944, trovai sul letto un piccolo violino, costruito da un vero liutaio. È ancora oggi uno dei ricordi più cari che ho. Mio padre aveva speso mille lire, moltissimo, e sfidò le ire di mia madre, che lo accusò di aver fatto un incauto acquisto. Mio padre era un grande artista, incisore di cammei, e mi onora tornare ancora oggi a Torre del Greco, il suo paese, dove sono sempre e soltanto il figlio di Vincenzo Accardo.

Vorrei che i bambini di oggi potessero sognare anche loro un violino, uno strumento musicale, non solo la PlayStation o l’iPad. Con il quale si possono fare cose molto creative ma che non può sostituire il tocco del legno, le corde, la sensualità di un suono prodotto con le proprie mani. L’odore delle sale da concerto, l’incontro con grandi artisti.

Il sogno di un violino è complicato, oggi come allora, al tempo della guerra. Non basta iniziare con un violino fatto in serie, arriva il momento in cui per partecipare ai concorsi importanti bisogna poter suonare uno strumento all’altezza. E un buon violino può costare una fortuna, come sappiamo. Oggi però ci sono fondazioni che prestano violini di gran pregio ai giovani meritevoli. Io ho in mente la lezione di mio padre Vincenzo, che non ha mai voluto che accettassi un violino in prestito: «Poi, quando te lo tolgono, cosa fai?», diceva. «Resti senza niente». Purtroppo è così, a volte è quasi peggio, perché abituarsi a suonare con un certo violino e poi doverlo restituire può distruggere un sogno, invece che sostenerlo.

Del resto, il violino è nato in Italia, a Cremona. Il primo violino fu costruito da Andrea Amati nel 1540. Uno di questi è esposto a Cremona, nel museo. Uno strumento che ha un’aura magica.

Si dice che il canto del violino sia quello più vicino alla voce umana. È un simbolo angelico e demoniaco, e non vorrei mai che con il passare degli anni e l’imporsi prepotente della tecnologia, uno strumento che non si accende e si spegne come un computer perda il suo fascino. Ma quello che non dà la possibilità ai bambini di sognare la musica oggi non è l’accesso o meno a uno strumento musicale.

Purtroppo è la scuola.

Parlo della scuola normale, primaria e secondaria, dove ci dovrebbe essere un’educazione musicale molto più completa, e più seria, per dare ai bambini la possibilità di scegliere la musica da ascoltare. La funzione della scuola è anche questa. O dovrebbe. Invece non si dà la possibilità di ascoltare Vivaldi, Mozart o anche Jimi Hendrix. Spesso chiedo che alle prove del mattino della mia orchestra possano venire i bambini, che capiscono la musica a meraviglia. Li ho visti commuoversi ascoltando programmi considerati difficilissimi, e ascoltare avidamente la musica, lasciandosene trasportare.

Per i giovani musicisti oggi è molto difficile realizzarsi, iniziare una carriera. È pensando a questo che insieme a Laura Gorna, primo violino dell’Orchestra da Camera Italiana, abbiamo immaginato e poi cominciato a costruire questo progetto, «Il sogno di un violino». Un percorso di borse di studio e soprattutto di formazione all’interno di una vera orchestra, l’Orchestra da Camera Italiana. Abbiamo selezionato giovani talenti, che suoneranno con me a Roma, in quattro concerti al Teatro Eliseo. Il programma comprende Vivaldi, poi Bach e Astor Piazzolla, per arrivare alle composizioni contemporanee. I più giovani hanno 17 anni e saranno il corpo di questi quattro concerti. Sono tutti miei allievi e saranno dunque diretti dal loro maestro in questo battesimo. Perché una delle caratteristiche uniche di questa orchestra è che tutti i componenti hanno avuto lo stesso maestro, cosa che oggi è rara, direi impossibile: tutti i violinisti sono stati miei allievi alla valente Accademia Stauffer di Cremona, che offre gratuitamente a giovani musicisti di valore una formazione musicale tra le migliori al mondo.

Va detto che per me il vero Maestro è colui che ti insegna a tirar fuori, a esprimere il meglio, e non a imitare lo stile di un altro. È soltanto così che si possono avere grandi musicisti, unici. Insegnando loro la tecnica, il rispetto per l’autore, e puntando il dito non verso i loro limiti, piuttosto nella direzione delle loro qualità migliori.

Perché iniziare da Antonio Vivaldi? Intanto va detto che le Quattro stagioni hanno più incisioni della Nona di Beethoven, è davvero la musica più popolare, letteralmente, che si possa trovare in tutto il mondo. È capitato addirittura che in Giappone, in una tournée di 34 concerti, i 33 che avevano in programma le Stagioni siano andati esauriti subito, e l’unico senza invece no, pur essendo noi gli stessi musicisti, la stessa orchestra.

Ma non è sempre stato così. Vivaldi è stato riscoperto soprattutto grazie all’Accademia Chigiana di Siena, di cui io stesso sono stato allievo. Il suo fondatore, il conte Chigi, è stato uno dei grandi mecenati della musica. Era un nobile senese, che non ha mai messo piede fuori dalla Toscana; anzi, probabilmente non ha mai messo piede fuori da Siena. Era un appassionato di musica, ma non andava ai concerti fuori città, dunque pensò di portare a Siena tutti i più grandi artisti del mondo, a studiare e a insegnare all’Accademia Chigiana, fondata negli anni Trenta.

Siamo passati tutti di lì; negli anni Cinquanta e Sessanta ho avuto come compagni di studi Claudio Abbado, Zubin Mehta, Daniel Barenboim, Charles Dutoit. Prima ancora ci insegnavano Alfredo Casella, Antonio Guarnieri, Arturo Benedetti Michelangeli. Anni dopo, Maurizio Pollini, Sergiu Celibidache e io stesso. Il conte Chigi aiutò la ripresa della musica di Vivaldi commissionando un’edizione pressoché completa delle sue opere, dai concerti più famosi fino all’opera lirica.

Prima del Novecento, Vivaldi era un autore amato dai suoi contemporanei, Bach aveva un’ammirazione straordinaria per lui, che considerava, com’è noto, e come scrive lui stesso, il suo padre musicale. Ma per tutto l’Ottocento Vivaldi venne dimenticato e soltanto all’inizio del Novecento la sua musica fu suonata di nuovo.

Oggi siamo all’opposto, le Quattro stagioni sono ormai musica da sottofondo, una non musica , stravolta anche da interpretazioni magari virtuosistiche ma senza nulla del vigore rock, sì rock, che c’è sullo spartito originale. Ci sono momenti adatti alla chitarra di Jimi Hendrix, si salta letteralmente sulla sedia. E poi momenti di delicatezza e incanto. Soprattutto le Stagioni sono un esempio straordinario di musica descrittiva, in cui Vivaldi racconta con precisione tutto quello che accade in un anno. In primavera il cinguettio dei primi uccelli, i pastori con le cornamuse, i fiori che cominciano a sbocciare. In estate c’è il caldo soffocante, e questo pastorello che dorme, sfinito dall’afa e dal lavoro. L’Adagio dell’ Estate è rappresentato dai mosconi che disturbano il sonno del pastore. Il suono del moscone si rende vivo con un particolare modo di poggiare l’arco sulla corda, con l’arco molto vicino al ponticello. Solo così si riesce a restituire il suono irritante del moscone, che è aggressivo, a tratti violento. Poi si finisce con il temporale, un temporale estivo, apocalittico.

Si passa all’ Autunno , dove Vivaldi ha rappresentato la vendemmia e i vignaioli, che a sera sono tutti ubriachi. Il modo di interpretare questa musica deve essere necessariamente molto libero, proprio da ubriachi, senza seguire rigidamente il tempo. Noi chiamiamo questo «rubato», il non andare esattamente a tempo. C’è poi un Adagio dove il violino solista non suona, perché il protagonista è il clavicembalo, che improvvisa.

Vivaldi ha proprio lasciato questo spazio di improvvisazione al clavicembalo, su un tessuto di archi che suonano una melodia lentissima: una parte dunque sempre diversa, a seconda di chi lo suona seduto alla tastiera. Nel finale è rappresentata la fiera che fugge dai cacciatori che la inseguono, e infine la uccidono. L’ Inverno è tipico, con il freddo. Questo freddo noi dell’Orchestra da Camera Italiana lo restituiamo, e siamo gli unici a farlo così, con gli archi che suonano sempre attaccati al ponticello, e si sente questo freddo, come se battessero i denti.

Vivaldi tutto questo lo scrive, non solo con le note ma con quattro sonetti che accompagnano la partitura e che è sempre interessante rileggere: a Roma li farò conoscere ai bambini nel programma a loro dedicato. E lì c’è tutto. C’è il camminare sul ghiaccio, per esempio, dove si sta attenti a non cadere, ma si cade lo stesso…

Sono legato a tutta la musica, tuttavia Vivaldi è un po’ il padre di noi violinisti. Era uno straordinario violinista lui stesso, che insegnava e dirigeva un’orchestra e coro di orfane, tutte donne, costrette a suonare dietro una grata, come racconta il veneziano Tiziano Scarpa in un bel romanzo, Stabat Mater , con cui vinse il Premio Strega del 2009.

È doveroso un omaggio a queste sconosciute virtuose, costrette dalle circostanze a diventare musiciste, alcune di grande valore, senza mai poter avere l’onore del loro nome nei concerti. Ci sono molte testimonianze, forse la più nota è quella di Jean-Jacques Rousseau, di come queste orfane raggiungessero livelli di perfezione nella musica e nel canto, eppure fossero costrette a non mostrarsi mai, un sacrificio che ha concesso la possibilità a Vivaldi di avere una straordinaria orchestra a disposizione per lunga parte della sua vita, prima di morire in povertà a Vienna.

Suono Vivaldi, e le Quattro stagioni , da quando avevo 22 anni, in tutto il mondo. La sua fortuna è anche un limite, molti hanno stravolto la sua musica per mettersi davanti a essa, per poter dire: «Questo sono io».

È un errore che considero drammatico. La cultura del suono italiana, del resto, è unica. Noi abbiamo una grande scuola musicale, che ci incarica di interpretare la musica innanzitutto rispettando ciò che ha scritto il compositore. I grandi musicisti italiani — da Maurizio Pollini a Claudio Abbado, da Carlo Maria Giulini a Riccardo Muti, e prima ancora Arturo Toscanini e Benedetti Michelangeli — hanno sempre avuto rispetto per il compositore. È la tradizione del virtuosismo elegante, del suono elegante non fine a se stesso. La tecnica è fondamentale, bisogna possederla a fondo per poterla dimenticare, come diceva Oistrakh. Ma altrettanto è lo spirito con cui si suona, l’idea di mettersi al servizio della musica, non di servirsene per sé.

Gli allievi chiedono spesso di poter avere i miei spartiti, con le mie annotazioni. Ebbene, non ne troverebbero nessuna. I miei spartiti sono intonsi, non aggiungo alcun «ritardando» o «diminuendo», legature diverse. Diteggiature sì, ma per il resto seguo con rispetto assoluto il segno del compositore.

Ho detto che ci sono in Vivaldi momenti totalmente rock. In realtà per me la distinzione in generi per la musica non esiste. Come diceva Leonard Bernstein, esiste solo la musica bella e la musica brutta. Molti artisti contemporanei del resto sono stati stregati dalla musica di Vivaldi, come di Rossini, perché è musica che contiene elementi di violenza, insieme a momenti di beatitudine. Kubrick ha usato nei suoi film Beethoven e Rossini, perché nella loro musica c’è molta energia, anche oscura, e sempre ricca di forza. Nel Settecento a teatro si mangiava, si amoreggiava, non c’era la distanza di oggi. Il mio sogno è che i giovani possano andare ad ascoltare la musica di Vivaldi e sconvolgersi come a un concerto di Mick Jagger, dove sono tutti in piedi. Il tipo di emozione è e deve essere lo stesso.

So bene che non tutti sono d’accordo ma resto convinto che anche i codici di abbigliamento vadano ridimensionati, non si deve pensare al concerto di Vivaldi come a un evento per pochi. È quello che vogliamo fare con i concerti aperti ai bambini, dove loro possano fare domande, e capiscano che siamo lì perché stiamo suonando, non siamo inavvicinabili. Noi facciamo rivivere qualcosa che c’è sulla carta, e ogni volta è diversa, a seconda del luogo, del momento. Il concerto dal vivo è un momento unico, irripetibile.

Nessuna riproduzione, nessuna incisione perfetta della Deutsche Grammophon può sostituire l’esperienza del concerto dal vivo. La musica riprodotta ti darà sempre lo stesso crescendo, lo stesso diminuendo, se ascolti un disco cinquanta volte sentirai per cinquanta volte la stessa musica. Se vai a due concerti dal vivo sentirai due musiche diverse, e saranno esperienze vive. Un bambino, amico di nostra figlia, mi ha detto: «Sogno di viaggiare per tutto il mondo con la musica, la mia amica Irene e un Samsung Galaxy». A me è sembrato un sogno bellissimo.