A volte gli incipit dicono molto di un romanzo. Assedio ed Esilio di Pasquale D’Ascola (Aracne, pp. 152, euro 10) inizia così: «Questo racconto è un’urna per ceneri mentali» e continua narrando di un Innominato nato nel 1922, picchiato dai compagni di scuola perché non partecipe dei loro entusiasmi per il regime fascista – «il piccolo innominato e tutti i suoi preziosi libri piombano a terra; poi manganelli dum pum tum sugli ossicini infantili, dum pum tum mentre i talloni schiantano i libri, e mani selvagge li agguantano» -; espulso da tutte le scuole del regno. Paradossale studente di una scuola tedesca che dava per ovvia la sua adesione ai valori del Reich; giovane partigiano ruggente di coraggio; scontento militante deluso dal Partito che s’andava a fare occidentale e per nulla libertario; innamorato sino alla fine di una donna – la treccia nera – che nel tempo ritorna e poi scompare; colpito dal fallimento dell’azienda paterna; tenace nel resistere comunque all’assedio della vita con un sentimento di estraneità e di esilio.
NON SI TRATTA di «una di quelle amenità familiari» che raccontano ordinatamente l’accadere della vita di un clan. Si tratta di un romanzo insieme interiore e politico, feroce nei confronti dei «fondatori di recenti e malsepolti imperi», che del Novecento disegna tutto il peso di ambizione e di lutto, che del fascismo disvela la parvenza dentro la quale «il niente si gonfia di iperboli e l’iperbole annienta. La città imbardata, inorbata, sbilenca sotto il peso dei neri labari, gagliardetta e impavesata dei tricolori di quella bassa monarchia da belle époque periferica che ai suoi braccianti personali ha fatto vincere la guerra per coronare di spine il sacro macello dei cui resti la terra chissà se ha finito di strafogarsi».
D’Ascola è capace di trasformare la storia, la guerra e la pace in un epico fallire che si riscatta diventando canto: «Dopo la rovina, dopo l’estinzione con il fuoco del fuoco con cui quel resto si è reso visibile, la cenere di chiunque e di qualunque fatto, è parola, canto, mito». Si tratta di un narrare colto e popolare, dolente e vivo, struggente, vero, decisivo.
CIÒ CHE TRASFORMA in letteratura le parole è il loro sgorgare da un pensiero rigoroso, oltre che da un sabba di invenzioni. Un pensiero che diventa linguaggio, ferita, illuminazione. Assedio ed Esilio ricorda il grottesco e insieme la compassione per l’umano di Carlo Emilio Gadda, che in D’Ascola diventa l’affilata lama di un chirurgo che disvela il male e lo richiude, guarendolo tramite il farmaco potente del ricordo inventato e dell’invenzione che ricorda: «Quanto agli episodi e a tutta la vicenda è chiaro che chi ha letto potrà o non potrà crederci. Le storie sono un teatro a due personaggi, un gatto e un topo, ruoli giocati a vicenda un po’ dal lettore un po’ da chi narra. Non è poco ma è tutto qui. Oh ingloriosa gloria». Questa la conclusione, naturale, necessaria e saggia.