Arrigo Cavallina è uno dei fondatori dei Proletari Armati per il Comunismo: il suo cursus honorum, per così dire, è micidiale, tragico per la militare irreggimentazione della giovinezza. Prima la Federazione giovanile comunista, poi il maoismo, il Sessantotto, Potere operaio, il primo arresto, nel 1975, la creazione dei PAC, nel 1977. Insieme alle Brigate Rosse e a Prima Linea, i PAC sono la formazione della sinistra estrema più feroce: l’emblema degli “Anni di Piombo” è la fotografia che ritrae Giuseppe Memeo, membro dei PAC, in via De Amicis, Milano, in mezzo alla strada, che punta la pistola, ha il passamontagna, contro le forze dell’ordine. “Fine di ogni spazio umano, pura bestia politica, in assoluta solitudine al di fuori del tempo del ‘dovere’”, ricorda, anni dopo, Cavallina. Mai implicato in fatti di sangue, è Cavallina a reclutare nei PAC Cesare Battisti, “un delinquente di non grande calibro”, che conosce in carcere, “scuola di rabbia e di odio, scuola di impotenza di fronte a ingiustizie atroci”. “Trent’anni fa, nel corso di uno sciagurato 1978, la banda Pac… ha compiuto reati gravissimi. E io mi porto addosso tutta la responsabilità di averla, con altri, fondata e di averne condiviso le azioni fino a quando me ne sono separato”, scrive, in un articolo pubblicato nel 2009 su “Studi cattolici”, Quello che penso di Cesare Battisti.Dal ’79, “sempre più convinto del fallimento dei nostri sogni rivoluzionari”, Cavallina si separa dalla violenza armata, sceglie la dissociazione: viene arrestato nel settembre di quell’anno, condannato a ventidue anni, poi ridotti a dodici. Nell’aprile del 1984 inizia per Cavallina, stritolato dal passato, una vita nuova: gli scrive, inaspettatamente, il “tuo vecchio (allora giovane) professore della quinta ragioneria”, Cesare Cavalleri. Intellettuale cattolico di spicco, numerario dell’Opus Dei, critico sulfureo, direttore di “Studi cattolici”, all’epoca Cavalleri ha sfidato il tiepido mondo culturale italico pubblicando per la casa editrice che dirige, la Ares, Il cavallo rosso di Eugenio Corti. Dopo un biglietto preliminare, affettuoso, Cavalleri ‘attacca’ Cavallina:
“La tua lettera è intrisa di dolore, e il dolore non è mai vano… il dolore che provi è già purificazione, ma hai bisogno di sentirti perdonato. E chi può perdonare, se non Dio solo? Questo è il punto, carissimo Arrigo. Occorre riannodare, ripristinare il tuo rapporto con Dio, perché è Lui che tu hai colpito, direttamente o in te stesso o negli altri”.
La perentoria certezza di Cavalleri, la violenza d’amore, sorprende Cavallina, curioso ma reticente: in carcere studia musica, “il flauto dolce contralto”, vuole laurearsi in Legge, “mi è diventato molto importante lo yoga”. Crede nell’uomo e non nell’Altro, nella Storia e nei suoi reflussi più che nel miracolo; forse, pensa che convertirsi sia codardia. Eppure, “Dio c’è, indipendentemente da che tu lo senta o meno. C’è ed è buono, ti vuole bene non perché tu sei buono, ma perché Lui è buono”. Cavalleri non guarda la colpa – che lacera gli uomini tutti – ma il riscatto, non rammenda ciò che è stato, si protende verso il possibile – che è poi l’impossibile. “Noi abbiamo l’esperienza di reali terroristi che si sono convertiti e che sono diventati dei grandi santi: è ovvio, ma evidentemente san Paolo è di questi”, dice, nel corso di un’intervista, nel 1985. Studia il caso di Cavallina, e quello di tanti ragazzi sconfitti dall’ideale rivoluzionario; ragiona sul sistema punitivo italiano, sull’abisso del carcere:
“La qualità morale di una società viene misurata proprio nel trattamento che essa assicura a coloro che stanno ai margini. Chi ha compiuto delitti va punito, ma l’equità deve informare la risposta (e non la vendetta) della società”,
scrive in un articolo pubblicato su “Avvenire” il 5 novembre del 1986. Insomma, oltre la crisi della lotta armata, senza fatui happy end, con la costanza degli estremisti esistenziali, si setaccia una via: il piombo può, per raffinazione, per rarefazione e altezza, rivelarsi oro.Il carteggio tra Cavallina e Cavalleri, pubblicato come Il terrorista & il professore. Lettere dagli Anni di piombo & oltre (Edizioni Ares, 2021), è l’atto finale di un’amicizia, è quasi una regola di vita, di certo non è un regolamento di conti. Soprattutto, è un modo per leggere gli Anni di Piombo – di cui è fornita una precisa Cronologia, tra i tanti documenti che punteggiano il carteggio – alle viscere del problema, sfasando la cronaca in intimità, l’ideologia nell’uomo che la professa, l’avventatezza in avventura spirituale (“Ecco perché è importante l’esperienza religiosa”, scrive Cavalleri, “Perché di Dio ci si può fidare senza residui, a lui ci si può abbandonare senza riserve”), ricavando tra le tenebre una mandorla di luce.
Dunque, abbiamo fatto alcune domande a Cavalleri.
La cella, che paradosso, sembra essere lo spazio privilegiato dove si accuccia Dio. Nel libro scrive di “reali terroristi che si sono che sono diventati dei grandi santi”, citando San Paolo. Sembra che l’esperienza del sottosuolo, dello smarrimento, della totale perdizione siano decisivi: o vivi o muori, insomma. È così?
Dio è dappertutto anche dentro di noi, ed è lì che dobbiamo cercarlo con i mezzi sacramentali che Lui stesso ci ha dato. Gesù ha detto di essere venuto non per i giusti, ma per i peccatori. Essere peccatori, però, non è un privilegio per essere amati da Lui, altrimenti la Madonna, nata senza peccato originale e vissuta senza peccati personali, sarebbe la creatura meno amata. Il realismo e la conoscenza di noi stessi ci fa convinti di essere peccatori. E proprio perché ci ama, Gesù ci parla di conversione. In ogni caso non dobbiamo dimenticare che Dio ci ama non se o quando siamo «buoni», ma perché Lui è buono.
Che idea aveva, all’epoca, degli Anni di Piombo e che idea ne ha avuto dopo il lungo colloquio epistolare con Arrigo Cavallina?
Durante gli Anni di Piombo costatavo che effettivamente c’erano buoni motivi per ribellarsi a situazioni di ingiustizia e di emarginazione che erano sotto gli occhi di tutti. Ma la risposta di «scendere in piazza», come si diceva e si dice tuttora, l’ho sempre trovata inutile e ridicola. Particolarmente irritante trovavo le «mobilitazioni» alla Camilla Cederna che scendeva in piazza, in pelliccia, per vedere i cortei accompagnata dalla domestica alla quale aveva prestato una sua pelliccia più bruttina. Indignante il “Corriere della sera” di Piero Ottone, e risibile Giulia Maria Crespi, proprietaria del “Corriere”, che offriva il tè a Mario Capanna. Il dialogo con Arrigo mi ha confermato che il terrorista o il poliziotto è pur sempre un uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, e quell’immagine è incancellabile.
A Cavallina, quasi subito, scrive: “purtroppo tendiamo a farci di Dio un’idea approssimativa, che non corrisponde al vero”. Cosa vuol dire?
Dio nessuno lo conosce, ci arriviamo – imperfettamente – attraverso Gesù, uomo come noi. Ma la ricerca è lunga, dobbiamo metterci continuamente in discussione.
Cosa significa, ad esempio, Dio con la rivalsa sociale, con la lotta civile?
Dio c’entra sempre: ogni rivalsa sociale, ogni impegno civile senza Dio è fallito in partenza. La presenza di Dio dà il significato della vita.
A un certo punto, lei afferma che “La qualità morale di una società viene misurata proprio nel trattamento che essa assicura a coloro che stanno ai margini”. Cosa significa rispetto al sistema detentivo, alla punizione da espiare per reati effettivamente commessi?
Il sistema carcerario vigente è indignante, indegno. Il discorso è troppo lungo per farlo qui, ma almeno va detto che la pena deve essere redentiva, riabilitativa. Ed è intollerabile una detenzione che non rispetta la dignità dell’uomo, anche se ladro o assassino.
Che cos’è la colpa?
La colpa è la nostra incapacità di corrispondere all’amore di Dio che ci ha amato per primo. Nessuna nostra corrispondenza sarà mai «adeguata», ma non dobbiamo stancarci di ricominciare.