Il Tennessee dentro Venezia e Verona: la faglia interiore di Wright

Già negli anni settanta, quando la sua poesia era agli esordi, Charles Wright giocava parecchie delle sue carte sui legami fra parola e figura. Nella raccolta Hard freight (1973) c’è per esempio la prima attestazione di un genere che avrà una certa fortuna nei suoi versi, quello dell’autoritratto (penso a Self-Portrait in 2035). E in uno dei libri più importanti – The Southern Cross (1981), che già in titolo indica un contrassegno forte del suo autore, l’essere cioè un poeta del Sud degli Stati Uniti – ecco ancora un autoritratto, di nuovo proiettato verso il futuro: «Un giorno scopriranno me e le mie mani bucate, / il plenilunio alle spalle, la nebbia in cerca dell’orizzonte / perduto, il bordo / del continente marcato di giallo, ansietà di luci, / schiene bianche di frangente, una sabbia nerofumo, / le ceneri e schegge di carbone che discolperanno il mio nome. / Intanto mi canticchierò una cantilena e farò ordine qui intorno…» (trad. di A. Francini). In certo senso un equivalente dell’autoritratto dentro il percorso di Wright – poeta colmo di consapevolezza, di meditazione autoriflessiva – potrebbe essere l’abitudine a raccogliere i frutti del proprio lavoro in libri auto-antologici e a disporli addirittura in diverse «trilogie» (con una discreta allusione alle cantiche della Commedia dantesca). Ora il lungo arco della sua esperienza poetica, che si estende ormai su cinque decenni di scrittura, è rappresentato da un altro libro riassuntivo, Oblivion Banjo The poetry of Charles Wright (Farrar, Straus & Giroux, pp. 784, $ 50,00). E quello strumento – il banjo – sembra un ulteriore indizio di «riepilogo», perché la prima delle antologie di Wright – Country music, del 1982 – guardava al medesimo fondo di musica popolare, e faceva convivere proprio il blues e il jazz con il grande stile della tradizione lirica occidentale, dal già citato Dante a Pound, che è probabilmente il più indispensabile dei suoi maestri.
Nato nel 1935 in Tennessee, Wright è della stessa generazione di due poeti legatissimi a lui come Mark Strand e Charles Simic. Anche Wright ha ormai, peraltro, una certa fortuna in Italia (dopo i volumi antologici allestiti da G. Prampolini e poi da A. Francini, dal 2016 disponiamo di una silloge intitolata significativamente Italia, a confermare il legame di Wright con il nostro paese, a cura di Moira Egan e Damiano Abeni per Donzelli, e presentata proprio su «Alias» da Caterina Ricciardi). Ma uno dei tratti che distinguono davvero il continente poetico wrightiano è che esso si offra, al lettore europeo, come una sorta di magnifico incontro fra il Vecchio e il Nuovo Mondo. Wright ha inevitabilmente interiorizzato, per esempio, il landscape americano, da Kingsport – dove ha passato gran parte dell’infanzia – fino alla California e al Montana, nell’Ovest degli Stati Uniti, sua residenza estiva. Ma questa geografia si è intrecciata spesso con quella italiana: è suggestivo scoprirlo dichiarare, in un’intervista degli anni settanta (poi in Quarter Notes, 1995), che Venezia e il Tennessee sono addirittura capaci di sovrapporsi misteriosamente nei suoi ricordi, come se appartenessero alla stessa faglia interiore. Oppure verificare quanto il ricordo di Verona – per esempio del portale della Basilica di San Zeno, o di Piazza Dante – torni continuamente nei suoi versi, non solo nelle raccolte più vicine al suo periodo italiano (che risale al triennio 1959-’61, quando Wright era appunto nella cittadina veneta, al servizio dello U.S. Army), ma addirittura fino agli ultimi anni: «Sunlight like I beams through S. Zeno’s west-facing doors,/as though one could walk there…» (sono versi che si leggono in Littlefoot, ormai del 2007, e non ancora tradotti in italiano).
Allo stesso modo, è vero che in un fulmineo aforisma contenuto negli appunti di Halflife (1988), Wright annota che «Every poet secret desire is to be Rimbaud», rinnovando il mito del poeta dalle suole di vento, e innestando dunque questo seme europeo nel suo acutissimo senso del paesaggio (passa anche da qui il suo amore per un altro poeta «in fuga», il nostro Dino Campana, i cui Canti Orfici Wright ha infatti tradotto). E tuttavia, è poi naturale che la poesia di Wright affondi contemporaneamente le proprie radici in un terreno di cui si riconoscono presto le coordinate più familiari, cioè statunitensi: si potrebbe cominciare col tener conto, fra molto altro, del suo legame – più volte rinvendicato – con un poeta come Hart Crane, che è anche il protagonista della lirica Portrait of the artist with Hart Crane, in una raccolta già richiamata come The Southern Cross (1981). O ancora, basterà ricordarsi che Harold Bloom ha definito proprio Wright uno dei ‘figlioli prodighi’ di Walt Whitman, e ha individuato in lui uno degli ultimi rivoli del Sublime americano. Se dovessimo indicare un qualche compagno di strada, una qualche analoga infusione del repertorio culturale europeo dentro la diversa ‘freschezza storica’ americana, si potrebbe cercare un equivalente figurativo, forse, nella parabola di Cy Twombly: anche lui un eroe del Sud americano, anche lui con un fondamentale periodo italiano – a Roma – e anche lui capace di frugare la miniera della cultura europea, scendendo verso le profondità del mito classico – si pensi al Twombly di Ero e Leandro – fino a ravvivarne la linfa, calandola dentro il proprio personalissimo stile. E, non a caso, proprio un dipinto di Twombly finisce sulla copertina di una raccolta pubblicata da Wright alla fine degli anni ottanta, Zone Journals, in cui di nuovo nomi americani e ricordi d’Europa si mescolano, fino alla citazione – tipica in Wright – delle sue auctoritates fondamentali: «Come ci dice Sant’Agostino, ogni cosa che è, è bene / fintanto che è, / perfino mentre fa ruggine e si decompone / nella natura paracletica di tutte le cose: / transplendente quanto basta, / direi, per i nostri bisogni, se è questo che intendeva / allora, là, nel giardino in quel cerchio di voci / che si allarga uscendo dal tramonto e scompare» (trad. Egan-Abeni).
Proprio l’impulso a mescolare, a procedere per incroci – dentro una sorta di splendido politeismo stilistico e culturale – sembra uno dei contrassegni più vivi di Wright. A questo proposito si può citare una pagina di Halflife, in cui riemerge quello che lui stesso definisce l’«odd marriage of Emily and Walt»: insomma il suo tentativo di coniugare, in uno strano matrimonio, la fortissima concentrazione lirica di Emily Dickinson e il passo fluviale e ampio, al contrario, del già citato Whitman. E in effetti l’alternanza che si dà, nei versi di Wright, fra annotazione più estesa, da diario in versi, e d’altra parte testi più brevi – che è ben testimoniata in Oblivion Banjo – sembra riassumere al meglio queste due diverse origini della sua scrittura. Nell’ultimo decennio circa – quello aperto dai Sestets (2009) – la misura breve sembra comunque favorire, più che in altre fasi, anche una certa essenzialità della dizione. Il late style di Wright sa essere a tratti anche spoglio, attenuando per esempio il gioco citatorio che tocca gran parte di quest’opera poetica. È questa l’atmosfera che si respira in effetti in un libro come Caribou (2014: «This is an old man’s poetry», si legge in una lirica intitolata Ancient days e qui raccolta), nel quale arriva al culmine una tendenza per la verità antica di questa poesia: la seduzione per ciò che va sparendo. Si può riaprire, in tal chiave, il già citato Zone Journals, in particolare il Diario di un paesaggio significativo: «Questa è la stagione del sottrarre, / quando ciò che si allontana è ciò che resta, / nel lago della propria grazia, / quando il lutto non è lutto, e l’autunno / aleggia sulla cuspide della sua unica responsabilità (…). Chissà dove dentro al paesaggio / qualcosa si inverte» (trad. Egan-Abeni). Così la poesia di Wright ha compiuto la sua lunga metamorfosi in passo di congedo, splendida «parola estrema»: è ciò che può toccare in sorte a una grande vecchiaia, e renderla luminosa.

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