Ribelle senza causa, Rebel Whitout a Cause. Così diceva il titolo originale di un film che, ai tempi, fece epoca e consacrò un attore segnato dal destino. Ma era il 1955: tempi che oggi sembrano preistoria di fronte all’accelerazione sempre più drogata della nostra epoca, tempi sepolti sotto le troppe «informazioni» (permetteteci le virgolette, come le usava Jack Lemmon in Prima pagina: molto, molto ironiche) che ci bombardano ogni giorno, ingessando la memoria di chi ancora cerca di coltivarla o più spesso seppellendola sotto troppe inutili nozioni.
Perché allora estrarre dai ricordi quel film che in italiano venne intitolato Gioventù bruciata? Perché il bisogno di tornare ancora una volta a quell’attore, a James Dean?
La risposta la suggerisce Goffredo Fofi, in un incalzante libretto di nemmeno cento pagine (Il secolo dei giovani e il mito di James Dean), specie di disperato pamphlet di chi aveva visto nei giovani — come Dean ma non solo — la spinta per un possibile cambiamento e poi ha dovuto ricredersi di fronte allo spegnersi di quelle speranze e al fallimento di tante utopie. E soprattutto di fronte a troppi morti giovani e giovanissimi, che diedero la vita nelle guerre degli «altri» («il dominio parte sempre dai giovani, si serve dei giovani, manda al massacro i giovani per primi, e questo il Novecento ha saputo ben ricordarcelo» scrive Fofi) o in quelle iniziate da loro, meno «mondiali» forse ma non per questo meno dure. E non per questo senza giovani martiri — i «nostri santi» scrive l’autore — dove Patrice Lumumba, politico congolese, sta al fianco del «Che» Guevara, Malcolm X e Martin Luther King sono sottobraccio a Jan Palach, in un elenco che diventerebbe troppo lungo per ricordare tutte le vittime delle rivolte e delle rivoluzioni.
Per questo il libro inizia affrontando la storia di un secolo, il Novecento, che in molti avevano chiamato «il secolo dei giovani» e che si è rivelato pieno di trappole e di false piste in cui tanti finirono per cadere (quanti furono i giovani che seguirono entusiasti le sirene totalitarie di ogni colore?). Ma anche portatore di ben altre pratiche ideali, come i giovani volontari nelle Brigate internazionali durante la guerra di Spagna, spinti da quelle stesse fedi che pochi anni dopo avrebbero dato vita ai movimenti di Resistenza al nazifascismo e che furono determinanti per l’affermazione di modelli di governo democratici. Ma capaci anche di accendere un altro, fondamentale cambiamento, guidati «da una generazione di artisti che era stata cresciuta nel dovere di un “noi” e che invece volle dire “io” e rifiutò di asservire la propria aspirazione alla ragion di stato», che fosse quella «rigorosamente capitalista e ipocritamente democratica o rigorosamente burocratica e decisamente autoritaria».
Per Fofi, ed è difficile dargli torto, quella del secondo dopoguerra è stata l’ultima grande generazione di artisti che ha rotto gli schemi e prodotto una nuova leva di autori e di opere, proponendo una inedita, giovane vague insofferente al «noi» obbligato e mossa dall’energia dell’individualismo, a cui tornare per ritrovare entusiasmi e rabbie. Con o senza «cause». A guidare c’erano scrittori, artisti, uomini di teatro ma soprattutto una nuova generazione di uomini di cinema, decisi a usare il mezzo più popolare per trasmettere un nuovo modo di guardare alle cose della società, a cominciare dai «giovani turchi» della Nouvelle Vague francese che esportarono in tutta Europa, in America Latina e in mezza Asia il loro entusiasmo e la loro voglia di rinnovamento.
Anche negli Stati Uniti, naturalmente (da ricordare almeno i nomi di Arthur Penn, John Cassavetes, Robert Altman, Martin Scorsese e, off Hollywood, Shirley Clarke, Andy Warhol, i fratelli Mekas), dove però lo slancio del New Deal sulle scelte produttive delle major e le ferite lasciate dalla Seconda guerra mondiale avevano trovato già negli anni Cinquanta i loro eroi, i «giovani ribelli» capaci di dare forza ai sogni e alle rabbie di chi non voleva più abbassare la testa: prima John Garfield, poi Marlon Brando e Montgomery Clift, infine James Dean.
Il primo era il giovane ribelle di origine proletaria, «eterno Martin Eden» alle prese con la società in crisi (in film come Hanno fatto di me un criminale, Le forze del male, Stanotte sorgerà il sole o Golfo del Messico); il secondo con il suo spirito solitario e anarcoide, paladino di una sessualità non ipocrita (Uomini, Un tram che si chiama desiderio, Il selvaggio), il terzo con i suoi turbamenti psicologici e il suo idealismo frustrato (Un posto al sole, Da qui all’eternità). E poi James Dean, «un ribelle di anni nuovi, di nuove incertezze, di insoddisfazioni e rivolte legate solo all’età, e non al disagio e all’emarginazione sociale».
A metà degli anni Cinquanta il panorama sociologico sta cambiando, il disagio economico e psicologico seguito al trauma della guerra (e alla fine delle illusioni del New Deal) produce nelle giovani generazioni disorientamento e incertezza, nell’assenza di una prospettiva e di una scelta vincente: è il disagio whitout a cause che il sociologo Paul Goodman racconta così bene nel suo La gioventù assurda e che James Dean incarna nel film di Nicholas Ray dopo quello di Elia Kazan, prima La valle dell’Eden e poi Gioventù bruciata. È il ritratto di un ribelle che cerca di affermare, pur confusamente, un modo di vita diverso da quello dei padri, alla ricerca di un’identità da protagonista «senza ancora essere cosciente di esser tale», sconvolgendo schemi e stereotipi della tradizione letteraria e cinematografica, americana e non. Offrendo così «una prima possibilità di riconoscersi a una generazione che pochi anni dopo scoprì di poter fare dell’obbligata immaturità una forza sulla cui base contrapporsi alla finzione adulta dei poteri». Aprendo la strada, anche senza rendersene conto, alle rivolte degli anni Sessanta ed esprimendo — per usare un’espressione di Edgar Morin citata da Fofi in chiusura — «nella vita come nei film, le esigenze dell’individualità adolescente che, affermandosi, respinge le norme di quella vita fossilizzata e specializzata che le viene offerta». Ieri come oggi.
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