Il romanzo di Johnny Cash

 

La prima edizione in lingua originale, l’inglese, e autografata si può acquistare sul sito di eBay a poco meno di 17 mila euro. Titolo: Man in White, scritto da Johnny Cash (1932-2003) nel corso di lunghi (e avventurosi) 9 anni e pubblicato negli Stati Uniti nel 1986 da HarperCollins. Da quelle parti è subito diventato un longseller, soprattutto grazie al nome dell’autore, star indiscussa del country e del folk negli anni d’oro di questi generi, che poteva vantare la pubblicazione di tantissimi album e 90 milioni di dischi venduti. Man in White — gioco di parole su una sua canzoni, Man in Black, come amava definirsi, ma anche titolo della sua autobiografia (Zondervan, 1975) e base per il film Walk the Line (2005) di James Mangold — è stato appena tradotto in italiano dalla casa editrice Piano B con il titolo L’uomo in bianco. Non è un’autobiografia. Non si parla di musica. È un romanzo storico che racconta la vita dell’apostolo Paolo, il Saulo di Tarso persecutore dei seguaci di Gesù, fino al momento in cui sulla via di Damasco diventa cieco per riuscire a vedere veramente e poi convertirsi. Dove il racconto neotestamentario non segue l’apostolo Paolo, Cash, che era ossessionato dalla sua figura e lo considerava il proprio eroe, passa alla finzione, mai però troppo slegata dai testi sacri, che conosceva assai bene.

Nel 1968 Cash aveva sposato la cantautrice June Carter, l’amore della sua vita. Lui era appena uscito da un periodo di tossicodipendenza da anfetamine e altri intrugli chimici e con la moglie aveva trovato diversi punti di contatto sulla lettura. Durante il periodo buio — scrive — «talvolta ero stato un vero e proprio castigo, furente, devastante, incoerente, imprevedibile, autodistruttivo. Poi, dopo tanto amore, tante preghiere e tutta quella follia finalmente alle spalle, iniziammo a passare un sacco di tempo a leggere ottimi libri».

Per tre anni seguirono i corsi per corrispondenza sulla Bibbia della Christian International di Phoenix e presso l’ Evangel Temple a Goodlettsville , in Tennessee. Cash aggiunge: «Non riuscivo a togliermi dalla testa l’ultimo corso che avevo seguito: La vita dell’apostolo Paolo di William Conybere e John Howson. Così iniziai a cercare romanzi su Paolo, e ne trovai alcuni molto buoni, soprattutto quelli di Sholem Asch e John Pollock. Poi passai ai commentari di Lange, Farrar, Barnes, Fleetwood e diversi altri». Una ricaduta grave nella tossicodipendenza fermò la scrittura per un lungo periodo. Fu attaccato da uno struzzo — così sosteneva — che gli ruppe tre costole e «la cintura mi salvò dai suoi artigli nell’addome» e poi per lenire il dolore abusò nuovamente di farmaci: sonniferi per dormire, anfetamine per alzarsi. «Non sopportavo più l’obbligo che mi ero assunto», ricordava a proposito del libro. Ma la verità era un’altra. «Volevo vedere di più di ciò che Paolo vide sulla via di Damasco, ma non ci riuscivo. Non avevo alcuna visione, alcuna ispirazione». Era in attesa del bagliore.

L’uomo in bianco è il romanzo di una conversione, quella di Paolo, ma anche di quella di Cash (nel 1973 scrisse e finanziò un film sulla vita di Gesù, Gospel Road, girato in Israele e diretto da Robert Elstrom, al quale partecipò in veste di attore), che riuscì a finire il suo libro solo dopo l’attesa visione che arrivò sotto forma di sogno, nel Natale del 1985, quando, poco prima del funerale del padre, gli «apparve» («era morto ed era così bello con quel vestito blu e la cravatta bordeaux») per prenderlo per mano e dirgli dolcemente: «Di’ a tua madre che non posso proprio tornare. Sto così bene e sono felice qui dove sono».

«Ora sapevo che era tutto a posto», scrisse Cash, che sul finire dei propri giorni riuscì a mettere in musica un passo delle lettere di San Paolo (dalla prima ai Corinzi), Corinthians 15:55, uscito nel disco postumo (7 anni dopo la morte) American VI: Ain’t No Grave.

La spina nella carne di Paolo di cui parla nel romanzo è anche la spina nella carne di Cash, che vede sé stesso riflesso nel suo eroe, accetta la sofferenza (e la canta), come l’ha accettata l’altro («Gesù Cristo ci ha detto come morire, senza paura, nella pace eterna. Paolo ci ha insegnato come prepararci»). Il passaggio biblico — «perché non montassi in superbia mi è stata messa una spina nella carne» — è ancora oggi oggetto di interpretazioni. Nella postfazione il figlio di Cash, John, scrive di avere capito che cosa intendesse il padre: una spina nella carne come ciò che «ci costringe a elevarci al di sopra del dolore. Il dolore vivifica la nostra attenzione, rende più significativo il nostro obiettivo». Nel corso della carriera Cash si è elevato ma ha anche toccato spesso il fondo: se i suoi ideali erano nobili e la fede una certezza, nella vita non professionale è stato spesso un disastro. Ha visto il buio della tossicodipendenza, di una cella in prigione, della morte del fratello in giovane età, dei letti d’ospedale, ma «a mano a mano — scrive Steve Turner nella sua biografia su Cash — la sua fede sembrava diventare più forte». C’erano però anche il successo, la stima dei colleghi, del pubblico, al punto che nel 1969 i suoi dischi vendettero più dei Beatles.

Quentin Tarantino nelle note di copertina al disco Murder (Columbia, 2000) scrive: «Cash canta di uomini che cercano di scappare: dalla legge, dalla povertà, dalla prigione, dalla follia, dalle persone che li torturano». Il disco si apre con uno dei suoi brani più famosi, Folsom Prison Blues, che pare però sia stato in parte plagiato da una canzone di Gordon Jenkins e che i due abbiano raggiunto un accordo extragiudiziario. La redenzione e l’accettazione vengono rese da un video su YouTube (visto da 69 milioni di persone) in cui Cash, poco prima di morire, interpreta Hurt (di Trent Reznor) nella sua casa museo, già in avanzato abbandono, in mezzo a vecchi cimeli, a una lussuosa cena mai consumata, al passato remoto dei ricordi che tornano quando meno te li aspetti, a una chitarra che non riusciva nemmeno più a suonare. I suoi occhi gialli, fissi, si portano dentro la rassegnazione della morte, mentre, sotto, una nota del pianoforte viene ripetuta ossessivamente in crescendo. Le sue mani raggrinzite e doloranti alla fine richiudono la tastiera e ne sfiorano dolcemente il coperchio di legno, accarezzandolo, come se fosse la bara che lo stava aspettando.

 

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