Il Sahel in fiamme destabilizza l’Africa

Jihadismo e rivendicazioni etniche: la miscela esplosiva

 

Antonio M. Morone

 

Da dieci anni la regione africana del Sahel è al centro di una crisi internazionale che è andata via via estendendosi dal Mali al Burkina Faso al Niger fino al Nord della Nigeria. L’evento scatenante viene individuato nello scoppio del movimento di secessione nel Nord del Mali, dove il Movimento per la liberazione dell’Azawad lanciò nel 2012 un’offensiva contro il governo centrale con il progetto politico di fondare un nuovo Stato, l’Azawad appunto, che ambiva all’indipendenza delle popolazioni tuareg del Mali ed eventualmente delle regioni limitrofe: il Sud dell’Algeria, l’occidente del Niger e il Sudovest della Libia. In realtà la vera origine della crisi maliano-sahelina si può collocare nella guerra civile scoppiata in Libia, un anno prima, con la rivolta e il conseguente intervento internazionale della Nato che portò alla caduta di Muammar Gheddafi senza di per sé risolvere il conflitto che ancora oggi lacera il Paese. Gran parte delle armi utilizzate per la secessione nel nord del Mali arrivarono dagli arsenali di Gheddafi, quando il collasso nel sistema di controllo dei confini e dei depositi di armi in Libia rese facile e remunerativo vendere all’estero almeno una parte dell’arsenale ricostituito durante gli anni Duemila, dopo la fine dell’embargo internazionale.

La messa in discussione dei confini statuali non costituisce una novità, al contrario rappresenta un tema ricorrente nella conflittualità a livello continentale a partire già dal cosiddetto anno di indipendenza dell’Africa, il 1960, quando la tentata secessione della regione mineraria del Katanga in Congo originò la prima crisi internazionale a sud del Sahara e il primo fallimento delle Nazioni Unite nell’arginarla. In effetti i confini coloniali imposti negli ultimi vent’anni dell’Ottocento dalle potenze colonizzatrici europee, sulla base delle reciproche esigenze e senza tenere in considerazione la storia e le società africane, costituirono dopo l’indipendenza un elemento che per sua natura prometteva di alimentare la conflittualità e le guerre in tutto il continente. Non fu certo un caso se con la nascita dell’Organizzazione per l’Unità africana nel 1963 il principio dell’intangibilità dei confini di epoca coloniale venne rigorosamente fissato e mantenuto nel tempo con sole due eccezioni: l’indipedenza dell’Eritrea nel 1993, che pure costituiva una conferma più che una smentita di quel principio, e poi l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011. È allora facile comprendere come il movimento secessionista nel Nord del Mali nel 2012 non riscosse i favori né dell’Unione africana né della più ampia comunità internazionale che si mossero a sostegno del governo centrale maliano.

A complicare il quadro contribuì la connotazione dichiaratamente islamista jihadista che il Movimento per la liberazione dell’Azawad assunse fin dalla sua fondazione nell’autunno del 2011. Il richiamo all’islam e alla guerra in suo nome fu in effetti invocato non solo dai secessionisti del Mali, ma di lì a poco da una serie di altri gruppi armati che si andarono formando rapidamente anche in Burkina Faso, Niger e infine Nigeria. Al di là dell’islam, tutti questi attori avevano in comune la contestazione del potere governativo nazionale e la rivendicazione di una maggiore centralità per regioni e comunità spesso marginalizzate o addirittura sfruttate all’interno dei rispettivi contesti statuali.

Nonostante tutti questi movimenti si siano spesso richiamati alle reti internazionali dell’islamismo e, quando ve ne fu la possibilità, abbiano aderito allo Stato islamico nato in Iraq nel 2014, le vere ragioni dell’esplosione jihadista nel Sahel non sono certo da ricercare nelle dinamiche internazionali della mobilitazione islamista, quanto piuttosto in ragioni prevalentemente locali, la cui difesa e promozione ha poi favorito la confluenza di questi movimenti nel jihadismo internazionale. Proprio in questo passaggio, non a caso, si è assistito a una saldatura tra diverse anime e componenti delle rivolte a livello locale con la creazione di due grandi fronti comuni tra il 2016 e il 2017: la Jama’at nusrat al-Islam wal-muslimin (Gruppo d’appoggio all’islam e ai musulmani) e lo Stato islamico nel grande Sahara. Il primo fronte è attivo soprattutto in Mali e Burkina Faso, mentre il secondo in Burkina Faso e Niger, ma con connessioni anche nel Nord della Nigeria con Boko Haram.

In realtà, nella mobilitazione anti-governativa che anima i due fronti di rivolta, un livello locale e uno internazionale continuano a intrecciarsi con una mobilitazione su base etnica e una fondata sull’islam. Anche l’etnicismo può considerarsi come un lascito problematico del colonialismo europeo, del suo razzismo e della sua costruzione di identità claniche o tribali. Ecco allora che un cortocircuito della storia è la contestazione dei confini internazionali di derivazione coloniale sulla base di identità etniche derivate da quella stessa costruzione razziale delle società coloniali, come nel caso dei tuareg. L’islam, a fine Ottocento come oggi, ha sempre offerto un’appartenenza alternativa e molto più aperta rispetto a quella localistica ancorata al singolo gruppo familiare o comunitario: una tensione simile è appunto l’inserzione nel movimento islamista jihadista internazionale in proteste fortemente ancorate a dinamiche locali e, in ultima analisi, derivanti dalla povertà e marginalità socio-politica a cui intere comunità regionali sono state condannate nell’assetto del potere statuale post-coloniale.

Islamismo jihadista e messa in discussione dei confini rappresentano una ovvia preoccupazione per i maggiori azionisti dell’ordine internazionale. La Francia è infatti intervenuta militarmente in Mali con l’Opération Serval (2013) e poi nell’intero Sahel con l’Opération Barkhane (2014). L’intervento francese si è svolto in pieno coordinamento con quello del United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (2013). La Francia non ha certo fatto mistero nello scenario post-bipolare di ambire, anche come ex potenza coloniale, a mantenere saldi i suoi interessi africani a partire dalla difesa a oltranza del franco Cfa che costituisce la moneta corrente di tutti questi Paesi. Non a caso l’attivismo francese nella crisi libica fu interpretato anche in ragione dell’interesse oggettivo di Parigi a rovesciare il governo di Gheddafi che a partire dalla fine degli anni Novanta era andato via via costruendo un progetto di mercato comune e cooperazione nella regione sahelo-sahariana di fatto alternativo all’influenza di Parigi.

I risultati dell’intervento francese sono stati modesti, anche rispetto all’obiettivo secondario e non dichiarato di controllare i flussi migratori internazionali. Il progressivo disimpegno francese nella regione (giovedì 17 febbraio Macron ha annunciato il ritiro dal Mali) ha aperto la porta alla Russia, già fortemente impegnata in Libia, direttamente o più spesso tramite le sue milizie private, come il Gruppo Wagner. Il tandem franco-russo potrebbe apparire inconsueto, ma ha già dato prova di funzionare proprio in Libia, dove se Parigi ha ufficialmente sostenuto il governo di Tripoli e dell’Onu, nei fatti si è impegnata militarmente in favore dell’Esercito nazionale libico di Khalifa Haftar che è sempre stato apertamente spalleggiato da Vladimir Putin.

In fin dei conti la lotta all’islamismo internazionale e l’accesso alle risorse energetiche africane sono due punti di facile convergenza tra due Paesi che in altri scacchieri sembrano essere molto più distanti tra loro.

 

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