Tra gli atti dei martiri, un posto particolare spetta alla Passio Perpetuae et Felicitatis. Il testo racconta il massacro di un gruppo di cristiani e del loro catechista, Saturo, perpetrato il 7 marzo del 203 nell’arena di Cartagine, governava Settimio Severo. La ‘passione’ ebbe un successo clamoroso: pare che a rifinire i diari dei martiri in forma narrativa sia stato Tertulliano – genio crudele, degno profeta dei grandi fustigatori à la Jonathan Swift –; Agostino ricorda che in Africa occidentale quella Passio aveva lo stesso statuto santo dei Vangeli, e ne era sconvolto. Merito non tanto della vicenda narrata – i cristiani scannati durante i giochi gladiatori, in pasto alle fiere, figura del demonio – ma delle figure femminili che la dirigono: Felicita, visionaria all’ottavo mese di gravidanza, che partorisce cinta in miracolo, e Perpetua, icona della donna virile, incrollabile, che non cede di fronte alla morte. Se Saturo, il maestro, muore sotto l’assalto di un leopardo, battezzato nel sangue (il secondo e più alto battesimo), Perpetua ha la potenza dello scandalo. “Fanciulla di eccezionale bellezza”, non cede ai colpi della ferocissimam vaccam che le è scagliata addosso, nello stadio, anzi: “chiesto un fermaglio, raccolse e fissò i capelli sciolti: non era decoroso che una martire patisse con i capelli in disordine”. Implacabile, Perpetua deve essere bloccata e uccisa da un gladiatore. Ma perfino il boia trema di fronte all’abbacinante virtù di Perpetua, per questo “guidò lei stessa contro la propria gola l’incerta mano del gladiatore: è da credere che una donna siffatta non avrebbe potuto essere uccisa se essa stessa non l’avesse voluto”.
Negli anni Settanta Giovanni Testori s’immerge nel teatro. Scrive L’Ambleto, che debutta al “Pier Lombardo” nel 1973, a cui seguiranno Macbetto (1974) ed Edipus (1977), s’impania in una lingua nuova, che mescola Alessandro Manzoni al latino sconcio del medioevo lombardo, le fratture di Francis Bacon alle fatture patetico/pittoriche di Gaudenzio Ferrari. La scrittura ha odore, nitidezza di fango, decomposizione. “Sì, esisteva la carne; solo la carne”, scrive, a un certo punto, Testori, in un romanzo di barocca bellezza, La Cattedrale, edito da Rizzoli nel 1974. “Che tipo. Come non gliene importa nulla di quanto accade fuori, attento esclusivamente com’è a ciò che la realtà provoca dentro di lui… L’ho sempre visto e sentito dentro la sua allucinazione creativa”, scrive, a quella latitudine cronologica, di Testori, Roberta De Monticelli.
Nel 1975 Giovanni Testori comincia a scrivere sul “Corriere della sera”: comincia parlando di Bernardino Luini, pittore lombardo che fonde enigma e frugalità, mistica e pane. In quegli anni, aveva scoperto l’allucinata sapienza della ‘passione’, genere letterario che fonda la narrativa cristiana, di furibonda forza – che ha a che fare, perfino, coi ‘sacri monti’, con le ‘sacre rappresentazioni’, col teatro del sacro e con l’altare come palcoscenico e sipario, trono e scannatoio. La contemporaneità, direi, di quel genere, violento e dunque consolatorio, facile e audace assieme, che mescola inno e memoria, diario e disastro, apocalittica e carezza, devozione, umiliazione, rettitudine. Così, nel 1975, Testori, mimando la Passio Perpetuae et Felicitatis, scrive la Passio Laetitiae et Felicitatis, romanzo conturbante, osceno, implacabile, mai più pubblicato, impubblicabile, che scende nel delirio della carne – dunque: della lingua – e percuote il verbo, e svagina ogni singulto liturgico, fino a fare della letteratura un singhiozzo, confessione di sradicata colpa, lampeggiante lussuria, eremo dell’eresiarca, mercimonio di miserie, urlo. Al posto di stare a cincischiare, ne calco un brano, per capirci:
“Quanto alla cagnetta… Cagnetta? Cagna, eccota; cagna, cagnassa et anca vipara viparenta… Tutto sventrato e spatasciato lì, davanti; ’me un tocco de carna pestata e strapestata; ’me avevan fatto lor medesime cont le nudità che avevan osato far apparire d’in de sotto le coverte. Una pervertita. Sì, sì, cara la mia gent. Pervertita in dei sensi e pervertita in della mente. Pervertita nella composizione del tutto di se medesima!… Il baratro: eccota quello che si sarebbe dervito davanti ai de loro piedi; il baratro… Così, didentro della sua testa, la Madre aveva già incominciato a veder l’occhio della Letizia, quella fossa negra, stendersi, tirarsi e slargarsi, fin a prendere la forma d’un lago, un lago che però calava d’ogni riva e d’ogni sponda… No. No, d’un lago. La parola giusta era un’altra: era melma; era palta; una melmata senza limitazioni…”.
Dunque, qui, nell’ipermodernità dei nostri giorni, si parla di ragazze conficcate in monastero, di corpi imbozzolati nel desiderio, di sessi esposti, deposti, eletti all’atto d’amore, tra impurità, godimento, illegale. Già: Testori s’impone nel sacro dissacrando – “La Regola est domà una gran balla, l’Ordine est domà una gran ciavata” –, sbenda i cadaveri, al Risorto predilige la carne ulcerata, violacea, muffita, del Corpo morto, Ostia da leccare, sbavare, divorare. Sa che la scrittura è questo incoronamento di spine, la canna che scava là dov’è la ferita, la donna che bacia i piedi, la porcilaia del mondo.
A proposito dei rapporti tra la sua Passio e quella antica, Testori dice:
“In apparenza, nel mio romanzo, il rapporto religioso può risultare rovesciato, se non addirittura dissacrato; tuttavia, personalmente, ritengo che rispetto all’esistenza, alle domande che essa pone oltre che all’infinito dolore di cui è composte, anche le mie protagoniste siano, in qualche modo, due povere, disperate martiri. Nei confronti di quello cui tende (la spiegazione, cioè, della vita) la letteratura non manca una sola volta di rivelarsi impotente, ciò non toglie che, ogni volta, si cerchi e si tenti di varcare quel limite e vincere quell’impotenza”.
Piuttosto: onnipotente tracotanza della scrittura, che sposta all’infinito l’infamia e il proprio limite, limitrofa al grido, alla mitragliera della bestemmia. Che bellezza: tentare l’intentato, fagocitare il rito nel trogolo, rasentare una lingua nuova, certi del fallire. Inutile il richiamo all’oggi – posto che esiste, nell’era irregolare, un oggi – in cui lo scrittore annaspa a riuscire, si avventa sull’attualità, coltiva, se va bene, aureole intorno al tema del giorno, polemizza imbacuccato nell’ovvio, fa – se va bene, ancora – l’estremista col clistere, romanziere col monocolo sempre lì, idolatria dell’idiota, a dire io, io, io, io, pollo sul deretano metropolitano.
Giusto per dare qualche coordinata letteraria – senza intonare il can can funebre dei beati vecchi tempi: i tempi sono sempre gli stessi, di beoti, coglioneria del soffrire, semplicemente, muta la verticale del tentare, un rigore, ma anche il rigoglio della goliardia. Nel 1975, anno in cui Testori pubblica la sua Passio, il Premio Strega va a Tommaso Landolfi con A caso (non a caso, libro edito anch’esso da Rizzoli); il Campiello, invece, va a Il prato in fondo al mare, romanzo anomalo di Stanislao Nievo; al Viareggio vengono premiati, in quegli anni, Paolo Volponi (Il sipario ducale), Mario Tobino (La bella degli specchi), Sergio Solmi e Giorgio Manganelli. Nel ’76 al Campiello appare il Davide di Carlo Coccioli; nel ’75, per Rusconi, Mario Pomilio pubblica Il quinto evangelio, un autentico capolavoro: segno, quindi, che il tema biblico, la tensione al religioso, l’afrore sacro incendia la letteratura italiana di quegli anni.
Nel 1972, in un saggio che introduce all’Opera completa di Grünewald, Testori già induce al dolce delirio della sua Passio, dacché tutto il Dio è destinato al biologico, al putrefatto, al virus, perciò al contagio, alla proteiforme rinascita:
“Il Cristo di Colmar non è più soltanto un colosso umano; e neppur più soltanto un toro indomabile, anche se vinto; le piaghe che maculano la sua pelle non sono più e solo cicatrici o ascessi dovuti alle spine o agli attrezzi della flagellazione e della tortura; esse sono anche, e nello stesso tempo, escrescenze e oscuri morbi di natura tipicamente vegetale, ferite di tronchi strappati, croste di clorofille malate; così some sono anche infezioni di tessuti, spurghi e corrosioni di sifilidi e di altre malattie legate ai vizi e alle profanazioni dell’uomo… Né il rapporto tra la testa di Cristo e la corona di spine è quale risulterebbe se la corona fosse stata veramente infilata sul cranio del Crocefisso; esso è quale sarebbe se la corona ne fosse uscita come una gemmazione spontanea e necessaria;né più né meno di come vi sono usciti e cresciuti i capelli con cui, del resto, s’intreccia e si confonde in modi del tutto vegetali, oltre che nelle maniere proprie ai rettili e a qualche specie di lumaca bavosa dei prati, dei boschi (e delle piogge)”.
Naturalmente, appunto, la Passio di Testori resta il romanzo radiato dall’albo del canone italiano – tutto il resto, di Testori, è reiteratamente ripubblicato, rianimato, discusso, messo in teche antologiche, palestre del buon gusto –, il libro irrecuperabile, indecente, l’altrove che non ha perdono, non ha casa nei cantoni del ‘letterario’. Finalmente, qualcosa d’indigesto, d’incuneato, di violento – “Romanzo scabroso, dalle situazioni difficili”, è scritto, nell’ala editoriale del libro, profilattico per il lettore esangue, che ricama sull’“amore carnale subito”, sull’amore peccaminoso “fra una suora e una bambina”. L’autore ne sarebbe lieto; che al martirio vada, sempre, lo scrittore.