Il ritorno del grande Bukowski

Rileggiamo il più geniale outsider della letteratura attraverso le sue lettere, ora pubblicate. Tra disprezzo per gli autori-star e amore per i diseredati
di Enrico Franceschini
«Il suono della macchina da scrivere. A volte penso che fosse il solo che volevo sentire. E quel bicchiere, birra e scotch, di fianco alla macchina. E trovare cicche di sigaro, accenderle da sbronzo e bruciarmi il naso. Non era tanto il fatto che stessi cercando di fare lo scrittore. Era fare qualcosa che mi facesse star bene ». Chi sta leggendo questo articolo, ha già letto il titolo, dunque conosce l’autore della suddetta citazione. Ma mi piacerebbe tentare un esperimento: farla leggere anonima, fuori dal contesto della pagina di giornale, e chiedere ai lettori di chi è. Scommetto che indovinerebbero in parecchi: perché Charles Bukowski è inconfondibile.
Sebbene sia scomparso nel 1994, la sinfonia dello scrittore americano di Storie di ordinaria follia, Factotum, Donne, Post Office, Panino al prosciutto e di un’altra sessantina di opere fra romanzi, racconti e poesie, è stata così prolifica che continuano a uscire suoi titoli. Nel centenario della nascita (16 agosto 1920, in Germania, dove il padre faceva il militare e s’era sposato con una tedesca – ma tornarono tutti negli Usa quando il figlio aveva appena 3 anni), è da poco uscito in Italia Sulla scrittura (Guanda), raccolta di lettere inedite a editori, amici e scrittori, tra cui Henry Miller, John Fante, Ferlinghetti, arricchita dai buffi schizzi di suo pugno con cui accompagnava talvolta la corrispondenza. È una sorta di manuale di scrittura da parte di colui che disprezzava manuali e scuole di scrittura creativa. Ed è anche un autoritratto sincero, ironico, appassionato, che restituisce “il vecchio Buk” in tutti i ben noti aspetti del suo mito: le sbronze, le corse dei cavalli, i mille mestieri fatti prima di sfondare.
Parla anche di San Pedro, il quartiere di Los Angeles dove ebbi l’ardire di bussare alla sua porta, una quarantina d’anni or sono, per scoprire un uomo gentile che non se la tirava per nulla e passare un indimenticabile pomeriggio a ubriacarci insieme di birra: «Un posto dove la gente è piuttosto normale e alla mano e faresti una fatica del diavolo a scovare uno scrittore o un pittore o un attore, dove posso vivere tranquillo con i miei tre gatti e bere quasi tutte le sere e pestare sui tasti della macchina da scrivere fino alle 3 di mattina. E il giorno dopo c’è l’ippodromo. Questo è tutto ciò che mi serve. Sono felice di non essere Norman Mailer o Capote o Vidal, o Ginsberg che legge con i Clash, e sono felice di non essere i Clash». Un libro così utile a capire perché Bukowski resiste al tempo ed è diventato un classico, che conviene lasciare la parola a lui.
Il romanzo
«Oggi non c’è più coraggio e fegato e trasparenza – e insieme se n’è andata anche la genialità dello scrivere. Tanti, tanti scrittori che scrivono non sono capaci di scrivere e continuano imperterriti a scrivere cliché e banalità stantie. Il problema principale è che c’è sempre stata una notevole differenza tra letteratura e vita, quelli che scrivono di letteratura non conoscono la vita e quelli che vivono la vita sono esclusi dalla letteratura. Con qualche eccezione: Dostoevskij, Céline, il primo Hemingway, il primo Camus, i racconti di Turgenev, Fame di Knut Hamsun, Kafka».
La poesia
«Se questo è scrivere, se questa è una poesia, chiedo una pistola vermifuga: se devo stringere la mano agli dei della carta per promuovere una piccola rima, preferisco il paradiso delle lettere di rifiuto. La poesia, per come la vedo io, è economizzare le parole. Questa sarebbe piaciuta a Gertrude Stein. Una poesia non dovrebbe essere una poesia, ma un pezzo di qualcosa che per caso esce nel modo giusto. Quando scrivo è per l’amore della parola, del colore, come buttare colore su una tela, vado molto a orecchio».
Gli scrittori
«Vi prego, salvatemi dagli scrittori: le conversazioni con le puttane di Alvarado Street erano molto più interessanti e originali. Oggi ci sono centinaia di migliaia di scrittori. Se di questi tempi chiami un idraulico, ti si presenta con la chiave giratubi in una mano, la ventosa nell’altra e un libricino dei suoi madrigali nella tasca posteriore. La sola cosa che potrei dire sulla scrittura alla gente è NON SCRIVETE. Ormai siamo ultra- contaminati».
I poeti
«I poeti si parlano fra loro, si convincono di avere cervello, si esprimono su tutto, presto diventano insegnanti, si piazzano davanti alla gente per spiegare come si fa, non solo come si fa a scrivere ma come si fa qualsiasi cosa. Fanno sempre più reading e adorano il pubblico, tutto quel circo di idioti che vanno ai reading di poesia. Ora, dicono, vi leggerò le ultime 3 poesie. E va bé, ma chi cazzo se ne frega! E naturalmente le 3 poesie sono lunghette. Ti guardi in giro e te li trovi che insegnano scrittura creativa in qualche università. Pensano di sapere come si faccia a scrivere e adesso racconteranno come si fa anche ad altri. È una malattia: sono autoreferenziali ».
I reading di poesia
«La mia idea di scrittore è di uno che scrive. Che siede alla macchina da scrivere tempestando il foglio di parole. Questo dovrebbe essere il punto. Non insegnare agli altri come si fa, frequentare seminari, leggere a folle impazzite. Se volevo essere su un palcoscenico, facevo l’attore. Se lo fai per pagare l’affitto va bene, ma troppi lo fanno per vanità. Ho trovato più vita vera in vecchi strilloni, uomini delle pulizie, nel ragazzino che aspetta gli ordini al chiosco del taco. Dato che la maggior parte dei poeti scrive da esistenze dorate, i loro argomenti sono limitati. Preferisco di gran lunga parlare con quello dell’immondizia o con quello alla friggitrice che con un poeta. Sanno più cose sui problemi comuni e sulle gioie comuni del sopravvivere. Mi sembra che la scrittura attiri i peggiori, non i migliori. Mi sembra che le rotative del mondo stampino all’infinito paccottiglia di anime inadeguate che critici inadeguati chiamano letteratura o poesia».
Hemingway
«Capisco perché Hemingway aveva bisogno dell’arena del toro, era un rapido viaggio dentro l’azione per ristabilire le sue visioni. Per me è lo stesso con i cavalli».
Céline
«Céline mi ha fatto vergognare di quanto scarso sia io come scrittore, avevo voglia di gettare via tutto. Céline, Céline, mio dio, pensare che hanno creato un uomo simile?».
John Fante
«Insieme a Delitto e castigo e al Viaggio di Céline, il tuo Chiedi alla polvere è il mio romanzo preferito. Le tue opere hanno dato una mano alla mia vita, mi hanno dato la speranza concreta che un uomo può buttare giù parole sulla pagina e lasciare sgorgare le emozioni. Nessuno l’ha mai fatto così bene come te. Il cielo è bagnato oggi e domani la pista sarà fangosa ma penserò a te e alla fortuna che mi è stata concessa di poter dire alla gente perché
Chiedi alla polvere è così bello. Un romanzo che mi ha salvato la vita. Non ci sarà mai un altro John Fante. Non so da dove tu abbia preso il talento, ma gli dei certamente te ne hanno ben dotato. Tu per me hai significato e significhi più di qualsiasi uomo vivo o morto».
Henry Miller
«Mi piacerebbe incontrati, mi piacerebbe vederti su una sedia davanti a me. Sarà difficile, non sono un grande oratore, non mi sento a mio agio il più delle volte, sarebbe come incontrare Dio, e poi tu attraversi la stanza per andare a pisciare e io dico, guarda, anche Dio piscia».
In morte di Miller
«Non molte vite come la sua. Nelle cose che scriveva ci metteva tutto sé stesso. Ho sempre avuto qualche problema a leggerlo perché a un certo punto salpava per una sorta di contemplazione di balbettii spermatici alla Star Trek, ma le parti belle le rendeva al meglio. Henry Miller. Un’anima dannatamente bella. E gli piaceva Céline quanto a me».
I russi
«Mi è sempre piaciuta la banda dei russi. Riuscivano a guadare il fiume della triste agonia, senza poter evitare che un sorriso piegasse loro gli angoli della bocca».
Stroncatura
«Il mio recensore del NY Times probabilmente è un ragazzo piuttosto simpatico, colto, eccetera, però non credo abbia mai saltato un pasto o che sia rimasto fregato da una puttana o abbia dormito su una panchina nel parco. Non che queste cose siano necessarie, capitano, ma quando ti succedono hai la tendenza a pensarla in maniera un po’ diversa. C’è gente benpensante che mi diceva: tutti soffrono. E la mia consueta risposta era: nessuno soffre come i poveri ».
Il successo
«Diventare famoso quando hai vent’anni è una cosa molto difficile da superare. Quando diventi semi- famoso passati i 60, è più facile adattarsi. Penso che una delle cose migliori che mi sia capitata è di essere stato uno scrittore di insuccesso per così tanto tempo e di avere dovuto lavorare per vivere fino a 50 anni. Mi ha tenuto lontano dagli altri scrittori e dai loro giochi di società».
L’insuccesso
«Il fatto che tu non venga accettato non fa necessariamente di te un genio. Forse scrivi solo male. Non sono il tipo che guardandosi indietro considera lo spreco sfrenato una completa perdita – c’è musica in ogni cosa, perfino nella sconfitta».
La sola regola
«Non voglio dettare regole ma se ce n’è una, eccola: gli unici scrittori che scrivono bene sono quelli costretti a scrivere per non impazzire ».
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