Non c’è un particolare motivo per cui sia stata scelta Lee Krasner per la prima mostra della nuova stagione di quel Guggenheim Bilbao, che a causa dell’emergenza Covid-19 ha visto crollare nei primi sei mesi del 2020 i suoi visitatori del 74 % rispetto all’anno precedente (da 486.268 a 126.086). «La mostra — spiega il direttore Juan Ignacio Vidarte a “la Lettura” — era stata programmata per la fine di maggio, in pratica è stata soltanto posticipata a metà settembre. Siamo stati molto fortunati ad aver potuto prolungare i prestiti delle opere». Eppure Vidarte (nato a Bilbao nel 1956, direttore generale del museo sin dalla sua inaugurazione, il 19 ottobre 1997) non nasconde che il privilegio della rinascita di questo spazio-simbolo dell’arte moderno-contemporanea (progettato da Frank O.Gehry) sia toccato proprio a Lena (che prima decise di chiamarsi Lenore e infine Lee) Krasner, nata a Brooklyn il 27 ottobre 1908 da una famiglia di ebrei ortodossi emigrati in America da un shtetl vicino a Odessa (già Russia, oggi Ucraina).
Pioniera dell’espressionismo astratto, morta a New York il 19 giugno 1984, aveva deciso di diventare artista già a 14 anni ed è ingiustamente nota per essere «solo» la moglie di Jackson Pollock, leader dell’action painting, capace di toccare i 48,8 milioni di dollari da Christie’s per il suo Number 19 del 1948 (contro gli 11,6 milioni del 2019 per The Eye is the First Circle di Krasner del 1960). «Lee — aggiunge Vidarte non ha avuto ancora la giusta gloria, basta pensare che questa sarà la prima monografica in Spagna. In qualche modo saldiamo un debito: nel 2017, con la Royal Academy di Londra, avevamo messo in piedi una fantastica mostra sull’espressionismo astratto ma allora le opere di Lee non avevano adeguato spazio. Adesso è arrivato il momento di risarcirla».
Dal 18 settembre al 10 gennaio con Lee Krasner. Living Color, «Colore vivo» (curata da Eleanor Naime e Lucia Agirre, organizzata in collaborazione con il Barbican Centre) il Guggenheim Bilbao vuole gettare nuova luce sull’espressionismo astratto made in Usa, concentrandosi in particolare su un’artista sempre singolare e modernissima, «costantemente animata da una voglia di reinvenzione e esplorazione». Un’artista che, anticipando certi principi del «contemporaneo digitale», sin dall’inizio rifiuterà ad esempio l’idea di «uno stile riconoscibile», preferendo piuttosto «lavorare in serie» (alla Andy Warhol, insomma). Un’artista — poi — che avrebbe ammesso che il fatto di essere stata ignorata era stata per lei una vera «benedizione» che l’aveva liberata dalle pressioni della critica, dei galleristi, dei collezionisti: creando opere d’impulso, cavalcando ogni nuova corrente a proprio piacimento, senza sentirsi mai obbligata a ripetersi.
Dunque, uno spirito libero e determinato. Fin da subito. Da quando, studentessa della Women’s Art School presso la Cooper Union (quando già Lena era diventata Lee), dipinge i tre Autoritratti che aprono la mostra di Bilbao. Uno di questi, in particolare, lo realizza nell’estate del 1928 a casa dei genitori a Greenlawn, a Long Island: per farlo, inchioda letteralmente uno specchio su un albero in giardino e come sfondo per il suo viso sceglie proprio gli alberi di quel giardino. A quel quadro Lee affida le speranze di essere ammessa al corso di «disegno dal vero» della National Academy of Design, che però lo rifiuta credendo che Lee l’avesse dipinto «al chiuso» e che solo dopo avesse aggiunto il bosco nello sfondo. Ma Lee protesta e, alla fine, viene ammessa, schierandosi da allora in poi contro ogni «approccio tradizionale» e ogni forma di «mediocrità ingessata».
Qualche anno dopo, nel 1942, quando è già diventata membro attivo dell’Espressionismo astratto, l’incontro fatale con Pollock, durante una mostra alla galleria McMillen Inc di New York, a cui Lee partecipa con i suoi amici Willem de Kooning e Stuart Davis. L’unico artista che Krasner non conosce è appunto Jackson Pollock: lo sposerà nel 1945. «Pollock — racconta Vidarte — ha avuto un legame stretto con l’Italia, anche se non ha mai lasciato New York, soprattutto attraverso Peggy Guggenheim». Nel luglio 1943 la Dogaressa gli commissionerà quel Mural che resta il più grande mai dipinto dall’artista mentre il Padiglione allestito da Peggy alla Biennale di Venezia del 1948 rappresenterà il debutto ufficiale di Pollock in Europa. «Lee avrebbe voluto incontrare Peggy, ma quel desiderio non si è mai avverato».
Per Lee Krasner, che considerava Picasso e Matisse delle «divinità», Pollock resta cosi l’unico contatto reale con l’Italia. Un elemento in qualche modo di distacco rispetto al museo di Bilbao. «Da sempre il Guggenheim Bilbao — precisa Vidarte — guarda all’Italia, basterebbe pensare agli italiani nella collezione permanente che sono nati in Italia o che in Italia ci hanno vissuto: Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Jannis Kounellis, Jacques Lipchitz, Cy Twombly. O a certe opere della nostra collezione come L’uomo di Napoli (1982) di Jean-Michel Basquiat o Villa Borghese (1960) di Willem de Kooning. O alle sei mostre, un record, finora dedicate ad artisti italiani: Clemente, Giorgio Armani, Fabrizio Plessi, Michelangelo e il suo tempo, Giorgio Morandi e gli antichi maestri, Lucio Fontana. O, ancora, alle opere esposte prima in Italia che a Bilbao: How Are You Going to Behave? (1964) di Liam Gillick; Senza titolo (1988) di Jannis Kounellis; Città muraglia (1995-2000) di Miquel Navarro; Doppia torsione ellittica ( 2003) di Richard Serra».
Quando Krasner e Pollock si trasferiscono nella fattoria di Springs, a Long Island, lo devono ancora una volta all’eccentrica Peggy (la fattoria potrà essere acquistata solo grazie al suo supporto economico). Che indirettamente aiuterà anche Lee a superare il momento di impasse che stava attraversando dopo la morte del padre avvenuta l’anno precedente, un blocco che non le consentiva di dipingere nulla di diverso da quelle che lei chiamava le sue «lastre grigie». Ma questa full-immersion nella natura spingerà l’artista verso la nuova iconografia delle Little Images, «piccole astrazioni vibranti, come gioielli». O della Mosaic Table, la T avola del mosaico (1947), realizzata con la ruota di un vecchio carro armato, abbandonato nella fattoria, a cui Krasner aggiungerà elementi decorativi «diversi» come tessere avanzate di un mosaico, frammenti di gioielli, chiavi, monete, pezzi di vetro.
Dopo il successo delle Little Images, Krasner decide che è arrivato il momento di lavorare alla sua prima vera mostra monografica, che si inaugura alla Betty Parson Gallery di New York nell’ottobre del 1951. Per l’occasione ha creato 14 opere astratte geometriche plasmate con colori luminosi: avranno ottime critiche, non ne venderà nessuna. Delusa, Lee inizia a lavorare a una nuova serie di disegni in bianco e nero, che fissa alle pareti dello studio, dal pavimento al tetto, «con la speranza che le suggeriscano un nuovo orientamento». Un giorno decide che però non può più sopportarli e li rompe: «Incapace di ritornare nello studio — dice il direttore Vidarte — quando finalmente lo fa scopre che ci sono un sacco di cose ancora interessanti». Il suggerimento è arrivato e, sulle tele della deludente mostra alla Betty Parson, Lee incollerà i resti dei suoi collage strappati, alcuni disegni scartati da Pollock, pezzi di giornale, fotografie: nascono Shattered Light, Bird Talk, Milkweed.
Nell’estate del 1956, in un momento difficile della sua relazione con Pollock, Krasner dipinge Prophecy, un’opera ancora una volta diversa dalle precedenti e in cui dominano le forme ondulate, carnose, con la cornice nera e con tocchi di rosa che sottolineano l’iconografia del corpo. L’artista stessa confesserà che Prophecy «la preoccupa molto», per questo rimane al cavalletto fino a quando non parte (da sola) per un viaggio in Francia. Sarà lì che il 12 agosto che Lee Krasner riceverà la telefonata che la informa che Pollock è morto in un incidente stradale. Pochi giorni dopo, Krasner riprende in mano i pennelli e crea tre opere che continuano la serie di Prophecy: Birth, Embrace, Three in Two. Ma perché dipingere nel mezzo del dolore? «La pittura non è qualcosa di estraneo alla vita, è la stessa cosa — spiegherà —. È come chiedermi se volessi vivere. Sì, è per questo che dipingo». Vidarte si allinea allo spirito di Lee: «L’emergenza Covid ci ha fatto capire quanto siamo fragili, ma anche quanto l’arte ci aiuti ad essere più forti».