Il ricamo di Calder, l’uragano di Kentridge Una grande bellezza

 


Al teatro Costanzi di Roma, il Teatro dell’Opera, un solo spettacolo (sublime), due spettacoli. Due recensioni, una sola recensione (divisa in due). Sto parlando di qualcosa che ho rischiato di non vedere (non penso mai al Teatro dell’Opera) e che ho visto in due diversi giorni, nella sequenza inversa. Prima veniva Work in progress di Alexander Calder, poi Waiting for the Sibyl di William Kentridge. Ho visto prima Kentridge, poi Calder. Sono tornato la sera dopo. Avevo pensato, non so perché, che Kentridge per un «critico di teatro» fosse ragionevole; e che Calder toccasse a un «critico d’arte». Avevo sbagliato in pieno. Era giusto che fossero visti l’uno e l’altro, non da un «critico» di qualsivoglia disciplina ma da chiunque, da qualunque persona avida di bellezza.

Quando ho visto Waiting for the Sibyl non avevo né carta né penna, non ho preso appunti, citerò a memoria. Per Work in progress mi sono attrezzato. Calder disse: «Avrei potuto intitolarlo “La mia vita in diciannove minuti”». Questi diciannove minuti sono divisi in cinque quadri, alcuni brevissimi, fulminei; altri di tre-quattro minuti. Nel primo appare su una superficie di uniforme colore un sole giallo, o una rilucente luna. Poco dopo scendono dall’alto quattro sfere vaganti, oscillanti: sono manifestazioni dell’arte del grande scultore americano, sono anch’essi dei mobiles come le sue opere. Alle quattro sfere se ne aggiungono altre tre, e di seguito un «albero», i mobiles ne sono i frutti — che otto uomini vestiti di nero, tutti uguali, è come se, laggiù in terra, li stessero aspettando.

Sto rendendo animistico ciò che ovviamente non lo è. Tutto è e deve restare astratto. Si tratta di un’opera del 1968, la sua musica è non certo melodica, non poteva essere che quella che ascoltiamo, di Niccolò Castiglioni, di Aldo Clementi e di Bruno Maderna. Nel secondo quadro appare il mare, appaiono una linea di onde sotto e una linea di onde sopra; e sopra le onde, ecco una figura, un «lieto mostro» (uso parole e virgolette per immagini che non saprei descrivere), un mostro lieto e infine una stella marina.

Il terzo quadro è completamente diverso. Una dozzina di ciclisti, con maglie colorate in modi ben altrimenti sgargianti e fantastici che quelle dei ciclisti veri. Girano ripetutamente formando un ovale, poi si dividono in due, formano due circoli, il primo gira verso destra, il secondo verso sinistra. In tutta conclusione non possono che mischiarsi, diventare una medesima entità — con le loro stesse ombre.

Tutto diverso anche il quarto quadro: da una parte c’è una piramide blu in cima alla quale un uomo sventola una bandiera rossa, dietro di lui un rosso sole e dalla parte opposta, sospesa in aria, nel vuoto, o nel cielo, una medusa, con tanto di occhi, naso e bocca, o una stella vivente — non lo sapremo mai. Nell’ultimo quadro gli otto uomini neri spuntano dal sottosuolo, lievi, come fossero in punta di piedi che non riusciamo a immaginare; essi sono forse i macchinisti (uomini meccanici), portano il grande mobile, un gancio lo solleva, i macchinisti entrano e riescono divisi in opposte frazioni spingendo due standing mobiles: essi si muovono lentissimi; gli uomini, immobili, sprofondano, tornano nel sottosuolo.

Lo spettacolo di Kentridge nasce da una committenza del teatro. Del grande artista sudafricano avevo visto un Ubu re e un Woyzeck: non mi avevano entusiasmato. Cosa è ora successo? È successo che ora si è liberato del testo, nulla più lo vincola. Nell’opera sua, e nel suo modo di sviluppare l’opera di Calder, è concentrata l’intera esperienza di ciò che si chiamò, e ancora è, teatro d’avanguardia. Il work in progress (uso impropriamente ma a ragion veduta le minuscole) deve continuare, continua di fatto, fin nel titolo. Ne è primo fondamento la musica. È Kentridge a parlarcene. In un primo momento si pensava a una musica registrata. Subito se ne vide l’impossibilità. Entra in scena Nhlanhla Mahlangu, con voce, cantanti e cori. Dopo di lui, Kyle Sheperd, un pianista jazz. Ma il vero punto di partenza è il Paradiso di Dante, è la Sibilla Cumana. «Le foglie volate via come in un vortice intorno a lei si trasformano nelle pagine del libro di Dante che vengono raccolte dal vento… Lei scriveva il destino su una foglia che lasciava all’ingresso dell’antro; nel momento in cui si andava a recuperare la propria foglia di quercia, si alzava un soffio di vento che le mescolava e questo faceva sì che non si sapesse mai se si stesse scoprendo il proprio destino o quello di qualcun altro».

Quelle foglie le vedremo staccarsi dal nero e immenso albero come dai volumi, rovesciandosi, si staccano le singole pagine e parole. La volatilità, l’incertezza, la provvisorietà sono la figura dominante di Waiting for the Sibyl. Ciò che è scritto viene come per caso, come fosse rubato — da altri testi, dalle parole di qualcuno incontrato per strada. Sono frasi brevi, citazioni, epigrammi. Appaiono e scompaiono in un lampo. A volte ritornano, uguali o leggermente modificati. Dimentica le tragedie greche. Il paradiso parla una lingua straniera. I tuoi dei non ci sono più. Te ne andrai all’alba. Nessuno si ricorderà di te. Non posso ricordare. It is too late: è troppo tardi. Non avrai più parole. Il profumo delle foglie di eucalipto. C’è un uomo felice nel Nordest del Brasile. Quante guerre ancora? Ancora una guerra per il bene del popolo. La contraddizione è sotto la corteccia. Cancella. Distruggi l’algoritmo. È questa credo la parola non detta (letta) alla fine, tuttavia finale. I ballerini ballano. I tamburi rullano. Le parole sono lì, appuntate su fogli di taccuini, o di enciclopedie strappate e consumate dall’uso.

E c’è quella scena, ripeto l’aggettivo, sublime. Un uomo saggia la resistenza delle sedie. Esse crollano, si sfanno — come fossero molluschi, esseri viventi. Anche gli oggetti sono parte della nostra vita. Come noi, anche gli oggetti a volte resistono, per un attimo, poi se ne vanno. Allo stesso modo, tutti ce ne andiamo. «Come si fa a sapere — si chiede Kentridge — quale sedia cederà quando uno si siede e quale sedia invece resisterà all’impatto del peso?».

Nulla è casuale. Nulla è gratuito nei due spettacoli di Calder e di Kentridge. Sono diversi e sono uguali. Work in progress così descrive la condizione umana: come effetto del cosmo, come progresso e rotazione. Waiting for the Sibyl la descrive come rotazione e distruzione — una distruzione permanente. Ma Work in progress (questa l’altra differenza, la differenza della forma) è un ricamo. Waiting for the Sibyl è un uragano.

 

 

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