Il Quarto Stato un manifesto politico che dialoga con la realtà

di Sergio Risaliti
Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, realizzato tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, è uno di quei capolavori ritenuti pressoché inamovibili, non solo per le sue dimensioni, che sono monumentali, ma per lo stretto rapporto identitario con il luogo in cui si conserva da molti decenni, la città di Milano. Eppure l’idea di trasferire il dipinto a Firenze per due mesi ha convinto tutti, a cominciare dalle autorità milanesi, che hanno risposto positivamente alla sfida lanciata da qui. La tela è così passata dal Museo del Novecento di Milano, dove si trova esposta, a Palazzo Vecchio.
Un conto è ammirare il Quarto Stato in un museo, un conto avvicinarlo nel Salone dei Cinquecento. In un museo le opere vengono storicizzate, vivono circonfuse di aura, e ci parlano da un’insopprimibile distanza, quella del passato a cui appartengono. Spostando il Quarto Stato in Palazzo Vecchio, l’opera è entrata in un luogo di vita pubblica, dove le persone si possono confrontare con il passato, il presente e il futuro, con il potere politico e gli organi democratici. In altre parole, il Quarto Stato ha ritrovato una sua espressività originale, una sua comunicazione in diretta con l’attualità e la dimensione della politica in senso ampio. Ecco perché dobbiamo pensare a questa occasione non come una semplice esposizione di un quadro, ma come una vera e propria performance culturale, nata dalle costole della storia dell’arte passata. Quando Pellizza da Volpedo ha immaginato il Quarto Stato, ha pensato ad altre opere. A cominciare dalla Scuola di Atene, affrescata da Raffaello in Vaticano. Le figure centrali della nostra tela corrispondono, infatti, nella posizione e nei gesti, a quelle di Platone e Aristotele come immaginate da Raffaello. Pellizza ha trasformato i due padri della filosofia nei braccianti del suo tempo, elevando questi al rango di quelli. Ci sono altre due opere che possiamo confrontare con il Quarto Stato. Una è La zattera della Medusa di Théodore Géricault iniziata nel 1818, l’altra è La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix del 1830 circa. Questi tre dipinti sono immagini dotate di un grande realismo, e alla loro epoca, hanno rappresentato dei veri e propri manifesti politici. Tutti e tre i pittori stavano dalla parte dei diritti umani, e hanno deciso di mettere in primo piano non divinità olimpiche, figure mitologiche o del cristianesimo, principi o regine, ma gente del popolo, cittadini di classi diverse, donne e uomini come noi. Dopo secoli di rappresentazioni ideali l’artista si incarica di mettere in scena la vita reale, i conflitti e le lotte di ogni giorno. L’artista in poche parole desidera che la sua opera abbia una funzione sociale e un peso politico e si fa portavoce dei diritti e delle rivendicazioni dei cittadini e del popolo. Quadri come questi non invecchiano mai e si mutano in immagine senza tempo. Non invecchia la Zattera della Medusa, perché scene del genere accadono di continuo nel Mediterraneo. Non invecchia La libertà, perché c’è sempre da qualche parte del mondo chi lotta per la democrazia e sale sulle barricate. E non invecchia il Quarto Stato, perché ancora oggi ci sono grandi incertezze e ingiustizie nel mondo del lavoro. I grandi capolavori travalicano la propria epoca, anche quando nascono dalla cronaca, perché si fanno portavoce di valori universali. Il Quarto Stato appartiene a questo genere di capolavori. Quell’immagine, ha il valore e il peso di una metafora che rinasce ad ogni stagione davanti ad un pubblico che guarda sempre diversamente quel corteo di lavoratori ritrovandovi però qualcosa di immutato, qualcosa che vale la pena difendere e rivendicare ancora.
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