di Franco Camarlinghi
prima di ogni altra considerazione che possa essere fatta intorno alla vicenda dell’ormai famoso emendamento per le concerie, ce n’è una che domina su tutto. L’impressione è quella di una raggelante solitudine politica in cui sembrano muoversi i protagonisti di una rappresentazione un po’ da tragedia greca e un po’ da vaudeville ottocentesca. Se prendiamo i due contendenti principali, usando la metafora teatrale potremmo dire che i due capocomici Eugenio Giani ed Enrico Rossi sembrano muoversi su una scena in cui sono presenti solo loro, in attesa che dalle quinte spunti qualcun altro. La verità è che nella scena politica toscana dalle quinte dovremmo vedere spuntare i partiti, per occupare il palcoscenico, condividerlo con i leader che hanno già recitato gli assoli e far sentire la loro voce per portare a conclusione lo spettacolo. Non succede, perché i partiti non ci sono più, o perlomeno non hanno più le capacità di visione e di orientamento culturale e politico che sole possono tradursi in organizzazione e in possibilità di dare un senso compiuto alle stesse leadership di cui dovrebbero essere stati i costruttori. Ecco allora che ognuno deve fare per sé e anche se non è un numero primo deve darsi da fare in perfetta solitudine e, per la prima volta nella storia della sinistra toscana, a suon d’insulti e di accuse che lasciano allibiti coloro che osservano. Giani o è un complice o un irresponsabile, dice chi ha occupato le stanze del Palazzo Strozzi Sacrati fino a pochi mesi fa.
Chi mi ha preceduto ha sostenuto l’emendamento che ora io abrogo, risponde l’attor giovane attuale… e via di questo passo. Sottolineare quanto sopra non è una cronaca di caratteri individuali, ma è il sintomo evidente di una crisi che riduce le posizioni di vertice politico a mere conquiste personali, a percorsi che rischiano di ridursi a pure convenienze di carriera e che alla fine vanno difese con le unghie e con i denti. Si tratta di una situazione che si ritrova in tutto il Paese, ma non c’è dubbio che colpisce in modo particolare il fatto che la Toscana sia diventata quasi l’epicentro di una crisi del Pd del livello che vediamo: la regione della più forte presenza dei democratici sul piano nazionale. Come è potuto avvenire tutto ciò, soprattutto pensando che l’opposizione al centrosinistra non ha mai raggiunto livelli di competizione risolutiva e nella stessa crisi attuale sembra più stare a vedere che in grado di assestare colpi decisivi a che governa la Toscana dal giorno in cui le regioni sono state istituite?
Chi scrive ritiene che l’esercizio ininterrotto del potere porta inevitabilmente a un logoramento della qualità della cultura politica e della classe dirigente di un partito (con buona pace del Divino Giulio e della sua battuta immortale). Del resto, la personalizzazione della leadership derivata dalle riforme elettorali che hanno coinvolto autonomie locale e regioni hanno sì pagato in termini di efficienza e di continuità di gestione, ma nello stesso tempo hanno mortificato la formazione politica di nuove leve, riducendo le assemblee elettive a semplici comparse. Dall’interno della sinistra toscana si sono levate comunque voci a cui è interessante dare ascolto. Vannino Chiti, senior nell’esperienza della presidenza regionale, guarda ai suoi successori non nascondendo la propria ira per il modo in cui si è ridotta la lotta politica e, soprattutto, per l’assenza di indirizzo e di visione del partito che lui stesso ha contribuito a far nascere, dopo aver a lungo guidato in tempi ormai storici il Pci toscano. Dal suo punto di vista ritiene centrale il fatto che il Pd toscano (evidentemente per identificazione assoluta con la gestione del potere e basta) abbia dimenticato Berlinguer e la questione morale. Francamente questo modo di porre i problemi sembra tornare a un periodo veramente di altri tempi. La questione morale, infatti, fu posta al centro del confronto con i partiti del centrosinistra di allora per motivi puramente politici: i motivi in particolare dello scontro con il Psi di Craxi che furono contrastati all’interno stesso del Pci, seppure secondo lo stile silenzioso dei gruppi dirigenti comunisti di allora. La morale dovrebbe essere un presupposto che non si decide con la politica, ma dato per scontato e se contraddetto punito con la dovuta severità: punto. La moralità della politica è nell’essere capace di essere buona politica (Vannino Chiti non ha certo bisogno di andare a cercare Benedetto Croce).
Quello che succede in Toscana e che riguarda per forza di cose la sinistra è quello che anche lui sottolinea: il Pd non è in grado di fare una buona politica e quindi rischia di non saper nemmeno capire quale è il confine fra la legalità e il contrario. Sorprende invece l’analisi consolatoria di un esponente di primo piano del Pd toscano, come è Dario Parrini: nessun problema, pieno sostegno a Giani e chiunque altro, tutto si comporrà nel meglio. Parrini dice una cosa giusta, riaffermando il garantismo che dovrebbe distinguere ogni posizione riformista a cui lui dovrebbe appartenere, ma il garantismo non può applicarsi al giudizio politico su sé stessi. Dire che tutto va bene e tutto dovrà per forza andare bene non porta a niente e soprattutto accentua la distanza con una realtà che è inutile negare. Per consolarsi della situazione del Pd in Toscana, a Parrini che è uomo colto non basterebbero nemmeno Severino Boezio e la sua filosofia.
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