Giovanni Antonio Sacchi, detto Il Pordenone (1483/84 – 1539) è uno dei protagonisti del Rinascimento nel Nord Italia.
Dove accompagnare un forestiero che, giunto a Venezia intorno al 1530, domandasse a un indigeno di visitare il pittore più in vista in città? Non è scontato, come appare a noi oggi con il senno del poi, che la bottega prescelta sarebbe stata quella del grande Tiziano. Per una stagione, fino alla morte prematura a Ferrara nel 1539, Giovanni Antonio Sacchi, detto il Pordenone dalla città di origine, ha conteso sulla scena veneziana lodi e commissioni a Tiziano: ha ingaggiato uno di quei duelli ad armi (quasi) pari, di talento e cultura e maestria, che punteggiano la storia dell’arte nei suoi momenti più felici.
Il Pordenone è uno dei grandi protagonisti del Rinascimento nel Nord Italia: la sua formazione si gioca nell’entroterra veneto, tra la Venezia di Giorgione e le fascinazioni monumentali e prospettiche della Lombardia bramantesca; ma assai presto, prima e meglio degli altri, Pordenone è capace di mettere in discussione la propria lingua nativa, e reinvestire quanto ha imparato nel confronto con tradizioni diverse: con le novità che maturavano a Roma (le novità di Raffaello e Michelangelo), con l’intensità patetica e i colori liquidi di Correggio. Così all’aprirsi del terzo decennio può esibire un linguaggio ricchissimo e senza confronti, raffinato e potente, capace di segnare indelebilmente i luoghi in cui è chiamato a esibire il suo estro energico e drammatico: basta chiedere agli artisti cremonesi che per quasi un secolo andranno avanti a fare i conti con l’inarrivabile energia punk che sprigiona dalle scene affrescate dal Pordenone, intorno al 1520, nella cattedrale della città padana.
È un protagonista misconosciuto, però, fuori dalla cerchia degli specialisti. Anche per questo, il comune di Pordenone e la regione Friuli-Venezia Giulia hanno deciso di organizzare una mostra nella città d’origine per celebrare il glorioso concittadino. La curatela è stata affidata a Caterina Furlan (decana degli studi sull’artista e curatrice dell’ultima monografica a lui dedicata, nel 1984) e a Vittorio Sgarbi.
Non poteva che apparire meritevole, dunque, l’idea di organizzare una mostra così, con prestiti prestigiosi e nomi di grido, su un pittore che non fa parte della rosa ristretta degli artisti dell’obbligo e, ancor più, in una realtà provinciale, esclusa dai percorsi dei tour operator e del turismo di massa. Sarebbe risultata ancor più meritevole, però, se a innervare una scelta del genere stesse un consapevole progetto culturale e politico, volto a valorizzare il territorio che ospita la mostra, a fare dialogare, perché si illuminino a vicenda, le opere giunte da lontano con quelle che a Pordenone e in Friuli si conservano sempre e da sempre, magari in chiese malandate e poco note: e allora itinerari predisposti, materiali informativi coordinati, sforzo con le realtà locali per prolungare le aperture delle chiese o dei palazzi disseminati di opere del pittore o dei suoi tanti allievi ed epigoni, lavoro di ricerca ad hoc per ragionare sugli scambi di dare e avere tra un artista geniale e il contesto in cui ha operato (e che ha segnato in maniera profonda, per generazioni e generazioni). Niente di tutto ciò. Nessuno vero sforzo emerge di trasformare l’evento espositivo in un’occasione di conoscenza e scoperta del territorio, o di entrare in reale dialogo con la struttura che ospita la mostra: nello specifico, la Galleria d’Arte Moderna, oltre a un’appendice poco significativa presso il Museo civico d’Arte che ha però alcune opere dell’artista nelle sue collezioni permanenti (ma le due sedi, nei giorni infrasettimanali, sono aperte solo dalle 15 alle 19; e chi viene in giornata e magari da lontano deve correre per visitare, a stento, entrambe).
Invece quella in scena, ancora per qualche giorno, a Pordenone, ha tutta l’aria di una mostra-pacchetto, buona per essere rimontata domani a Vicenza e dopo-domani a Pasadena. È una “Mostra-di-Sgarbi” (del tutto simile, per esempio, anche se con qualche ambizione in più, a quella dedicata a Giovanni Demio, in scena a Schio l’anno passato: e non mancano opere passate da una mostra all’altra, senza colpo ferire): ormai, e purtroppo, si tratta di un vero e proprio genere museografico, con caratteristiche proprie e replicate; mostre non nate da un progetto di lavoro e ricerca, ma da un’occasione contingente risucchiata nella bulimica e seriale produzione su cui Sgarbi appone la sua egida.
E quindi con un percorso confuso e senza una vera tesi, dove l’assunto cronologico che sembra informare la partenza dell’esposizione (dove si dovrebbe ragionare sugli esordi dell’artista; ma i riferimenti proposti non riescono a spiegare quello che poi accade) naufraga dopo un paio di sale, e si fatica a seguire il filo di un discorso e si rischia di uscire con le idee più confuse di prima. Dove l’abbondanza dei confronti, spesso con opere di alto livello ma non sempre funzionali al percorso (perché Moretto, per esempio, o perché Sustris, o perché Vasari, che arriva a Venezia quando Pordenone è morto e sepolto?), finisce per schiacciare quello che dovrebbe essere il protagonista e che se ne esce invece, a vedere soltanto la mostra, con le ossa rotte: difficile farsi un’idea, nelle sale affollate dell’esposizione, della reale statura del Pordenone. Dove la qualità non è omogenea e ad assoluti vertici della storia dell’arte sono accostate opere più corsive o in condizioni conservative tali da precluderne una reale comprensione.
Per fare solo un esempio: la centralità di Giorgione per la partenza dell’artista è fuori discussione ma è difficile raccontarla se l’opera prescelta per le sale dell’esposizione è la Nuda, porzione (malamente) superstite dagli affreschi realizzati, nel 1508, al Fondaco dei Tedeschi: un’opera fondamentale certo, per quello che ci raccontano le fonti o che riusciamo a ricostruire, ma che oggi, ridotta a una larva pressoché illeggibile, pare Burri ed è del tutto inadatta a rappresentare il magistero di Giorgione.
Non che manchino materiali di straordinaria qualità, anzi. Tra le presenze più ricercate è impossibile non segnalare la piccola, straordinaria, tela con la Famiglia del satiro, un dipinto di collezione privata che, a quanto mi risulta, non era mai stato esposto prima in una mostra. Un’occasione eccezionale, dunque. Il dipinto però è presentato – assertivamente, senza un punto di domanda a segnalare quantomeno la possibilità del dubbio – con il nome di Sebastiano del Piombo, geniale compagno di strada di Giorgione e del giovane Tiziano che avrebbe preso, assai presto, la via di Roma. Un’attribuzione nuova, e sorprendente, per un dipinto la cui – breve – storia critica va in tutt’altra direzione: era stato pubblicato, nel 1995, da Alessandro Conti che, scoprendolo in una fotografia, l’aveva riconosciuto come un capolavoro giovanile di Correggio (si registra poi anche una proposta in favore di Pordenone, che dovrebbe giustificare la presenza del dipinto nelle sale della mostra). Uno si precipita allora a leggere la scheda in catalogo per comprendere quali ragioni possano avere condotto a un rivolgimento critico tanto significativo. Ma dati nuovi non ce ne sono. Ora: poco importa che il dipinto continui a sembrarmi, come credeva Conti e con lui alcuni dei maggiori conoscitori del Novecento, un capolavoro della giovinezza di Correggio, un dipinto importante per comprendere il peso della cultura veneziana e giorgionesca nel percorso del geniale pittore emiliano (all’altezza, tanto per evocare un dipinto milanese, della Natività di Brera); e ovviamente è legittimo maturare un parere nuovo, in contrasto con quanto tramandato dalla tradizione critica, ed esporlo e argomentarlo: è la naturale, e sana, dialettica della ricerca. Ma non sarebbe stato il caso di segnalare con un “?”, con un “attribuito a” lo statuto ipotetico dell’attribuzione?
E lo stesso accade con un altro dei pezzi memorabili esposti a Pordenone – pezzi che da soli valgono il viaggio, verrebbe da dire, se non fosse che la mostra fa di tutto per istillarti il dubbio che no, in fondo non ne valesse comunque la pena: un Cristo portacroce che viene dai Musei di Vienna. È stato di recente proposto da Alessandro Ballarin (probabilmente il massimo conoscitore vivente di pittura a Venezia, nel delicato passaggio tra Quattro e Cinquecento: nel passaggio verso la maniera moderna) come capolavoro di Giorgione, proprio all’aprirsi del secolo: un’invenzione con pochi confronti, con un’intensità psicologica che brucia in un colpo lo spazio intorno a sé e un’intera tradizione pittorica per inchiodarti al suo sguardo, mentre si volta a guardare proprio te. È un’ipotesi che spiegherebbe, con una data così alta, il carattere quasi ancora belliniano della straordinaria veste rossa squadernata sul primo piano, o certe reminiscenze, nei riccioli dei capelli, che verrebbe da pensare ancora leonardesche; è un’ipotesi, soprattutto, che potrebbe spiegare il livello di qualità stupefacente che – proprio la mostra rischia di confermarlo – a fatica si ritrova nelle opere certe del Pordenone.
È un’ipotesi, certo. Così come un’ipotesi, basata solo su dati di stile, è quella, più tradizionale, che vuole il dipinto opera del Pordenone, dentro ormai il secondo decennio: così il dipinto è esposto. Anche in questo caso nulla, però, in mostra o nell’intestazione della scheda in catalogo, segnala che un dubbio, almeno un dubbio, è possibile.
Il discorso rischia di farsi esageratamente specialistico: ma cosa interessa al pubblico di questi dibattiti, si potrebbe obiettare. Il problema in discussione però è il tipo di rapporto che la mostra si propone di istaurare con i cittadini che scelgono di andare a visitarla. Ma non sarebbe stato meglio, invece che spacciare certezze che non ci sono, dichiarare le difficoltà e le aporie che accompagnano sempre il mestiere dello storico e cercare piuttosto di mettere il visitatore nelle condizioni di capire l’importanza e la qualità di un oggetto esposto – e il suo senso rispetto al percorso della mostra, ammesso che ce ne sia uno – a prescindere dal nome scritto sul cartellino? Stimolare domande e riflessione, spingere lo spettatore a interrogarsi e a ragionare sulle intrinseche caratteristiche di un’opera (e di come, queste caratteristiche, dialogano o non dialogano con le opere esposte intorno), invece che fare la voce grossa?
(Se si volesse continuare sul piano delle diatribe attributive, invece, ci sarebbe da discutere su un Giudizio di Salomone su rame, di collezione privata, riferito a Antonio Sacchi o Sacchiense junior, un nipote del Pordenone: è un pittore ancora in buona misura misterioso, ma difficilmente gli potrà spettare questo dipinto che nulla condivide con le opere certe dell’artista e che rischia di spettare anche a un’epoca un poco più tarda)
Non mancano poi cartellini abbinati alle opere sbagliate o problemi nell’allestimento, alle prese con gli spazi poco felici e poco adatti della Galleria d’Arte Moderna cittadina, tra soffitti troppo bassi, spazi troppo angusti, colori troppo accesi. Spicca la sala dedicata ai lavori realizzati dal Pordenone a Cortemaggiore, piccolo centro padano al cuore di uno dei tanti staterelli feudali – quello dei Pallavicino – che ancora costellavano il Nord Italia nel Cinquecento. Qui, tra affreschi e tele, l’artista ha dato vita a un tour de force di invenzioni pittoriche che contano tra i suoi capolavori e su cui tanto hanno insistito, con buoni risultati, gli studi degli ultimi anni. Era l’occasione per vedere bene, per esempio, il grande Compianto racchiuso in una cornice prospettica-illusionistica: un telone consunto e forse incompiuto, quasi una sindone, in cui l’evanescenza della tempera magrissima e pressoché monocroma pare addirittura amplificare la carica drammatica a tratti irreggibile della scena, schiacciata sotto la massa incombente di una rupe dipinta con niente. Ma tutto è annullato dal rosso brillante delle pareti, in grado di appiattire e cancellare anche un vertice assoluto dell’arte occidentale come il Compianto di Correggio, dipinto per la cappella Del Bono in San Giovanni Evangelista a Parma (oggi nella Galleria Nazionale) e convocato come prestigioso e giusto confronto.
La sezione dei disegni – ricchissima e con pezzi davvero eccezionali – è relegata in fondo, in due stanze in cui solo i più coraggiosi riescono ancora a sostare. È noto che l’esposizione di opere su carta pone problemi particolari di tipo conservativo che richiedono soluzioni elaborate e costose: ma che occasione sprecata per vedere i fogli accanto alle opere a cui magari si riferiscono, per vedere la produzione grafica dell’artista, eccezionale disegnatore, calata nel progresso del suo percorso.
Pordenone e il Pordenone avrebbero meritato di meglio.