Il pontificato post-occidentale

 

Massimo Franco

 

Quando nel settembre del 2015 Papa Francesco andò a Cuba, in America Latina dissero che la visita preparava la caduta del «nostro Muro di Berlino»: quello sudamericano, simboleggiato dalla frattura tra Stati Uniti e regime castrista, il cui crollo era destinato a cancellare, in nome di un benefico effetto domino, i residui di autoritarismo presenti nell’America australe; e a costringere gli Usa a specchiarsi nella loro sorella povera in modo diverso dal passato, senza istinti colonialisti e imperialisti. Le trattative tra l’Amministrazione di Barack Obama e gli uomini di Raúl Castro videro nell’ultimo tratto del negoziato la partecipazione vaticana come garante benedicente della tregua, che sarebbe stata sancita nel dicembre successivo. E, a livello religioso, questa dinamica fu sublimata dall’incontro all’inizio del 2016, proprio a Cuba, tra Francesco e il patriarca ortodosso di Mosca Kirill, sanando una frattura millenaria.

Era un momento di grande influenza di Papa Francesco. Veniva percepito come un regista in grado di riplasmare schemi e alleanze; e di modificare perfino l’approccio statunitense al dopo guerra fredda. In qualche misura si trattava di una percezione esatta. Francesco esprimeva un papato non antioccidentale, ma post-occidentale: una sorta di Occidente alternativo, connotato da una forte inclinazione sudista. Purtroppo, cinque anni dopo, la caduta del «secondo Muro di Berlino» in terra americana si rivela un’occasione storica mancata. E rivela i limiti di un progetto profetico e insieme forse troppo ambizioso: nel senso che la Chiesa cattolica può facilitare alcune dinamiche geopolitiche, ma non crearle. La sua grande capacità di mediazione funziona se c’è anche la volontà altrui di trovare una soluzione.

Il congelamento della distensione con il mondo ortodosso è un altro esempio eclatante. Tra Francesco e Kirill, dopo l’incontro cubano, i rapporti si sono diradati. Ma non per responsabilità del Papa. Le spaccature degli ultimi due anni all’interno del mondo ortodosso hanno reso più difficile e scivoloso scegliere un interlocutore privilegiato senza sollevare reazioni e ritorsioni contro i cattolici. Nell’ottobre del 2018 il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli ha riconosciuto l’autonomia delle Chiese ucraine, e di rimbalzo si è riaperto lo scontro con Kirill, riproponendo fratture storiche tra ortodossia ellenica e slava. A questo si deve aggiungere la salute precaria di Kirill, che costringe a rinviare a data indefinita un possibile invito a Francesco a visitare Mosca.

Il Vaticano si trova dunque a muoversi su uno scacchiere georeligioso che, sul fronte russo, è insieme scomposto e radicalizzato dai contrasti altrui. Incrocia il conflitto strisciante tra Federazione russa e Ucraina, e rende ancora più vistosa la dipendenza del patriarcato di Mosca dalla strategia di Vladimir Putin: tanto che si parla del suo ex assistente spirituale come prossimo patriarca. Per paradosso, appaiono migliori i rapporti con un mondo islamico che Francesco non smette di evocare, nel tentativo di moderare il fondamentalismo soprattutto sunnita e trovare punti di dialogo.

Oltre a citare il patriarca Bartolomeo, nella sua enciclica Fratelli tutti Francesco ha sottolineato come fonte di ispirazione l’imam sunnita dell’università egiziana Al Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, che aveva incontrato ad Abu Dhabi. Sono convergenze che sottolineano quanto lo sguardo di Bergoglio punti al Medio Oriente, all’Africa e all’Asia, soprattutto. E quanto rischi di lasciare scoperto il fronte occidentale della Chiesa cattolica, che mostra crepe vistose da tempo, perfino approfondite negli ultimi anni del pontificato argentino, accusato di eccessiva accondiscendenza verso il mondo islamico: accusa che, tuttavia, finora non ha incrinato le relazioni buone e cordiali, seppure non prioritarie, con l’ebraismo.

La georeligione del papato mostra dunque i punti più sensibili e delicati proprio nel mondo cristiano. E il rapporto con gli Stati Uniti e con l’Europa rimane, nel bene e nel male, uno spartiacque ineludibile. Lo si è capito quando, con l’elezione di Donald Trump nel 2016, la strategia vaticana è stata costretta a ripiegare anche nella sua America Latina. L’elezione di Jair Bolsonaro in Brasile alla fine del 2018 ha segnato la vittoria di un trumpiano di destra, protestante ma votato anche da molti cattolici. E il populismo lungo l’asse Brasilia-Washington contraddice la «teologia del popolo» bergogliana, tacciata dai neoconservatori di essere di sinistra o addirittura «marxista».

Nel 2020 la strategia di Bergoglio segna dunque il passo. Un intellettuale cattolico suo amico sostiene che il Papa ha come modello la teoria dei «due imperi cambiati dalle periferie». Il primo, quello sovietico, è stato scardinato dalla rivoluzione della periferia polacca: periferia rispetto a Mosca negli anni Ottanta del secolo scorso. L’altro, quello di Washington, doveva essere destabilizzato dalla periferia latinoamericana sotto la guida dell’Argentina di Bergoglio, ma stavolta non è accaduto. Gli esperimenti degli ultimi anni, dall’Argentina all’Ecuador, al Cile, alla Colombia, al Brasile, per non parlare del Venezuela, si sono scontrati con l’incapacità di gestire l’economia, oltre che con gravi fenomeni di pedofilia.

Tra i consiglieri di Francesco va di moda la tesi secondo la quale la crisi di molti Paesi latino-americani è frutto di un complotto ordito dall’America del Nord per sabotare i progetti di normalizzazione democratica; e di massicci aiuti finanziari agli evangelici protestanti, concorrenti del cattolicesimo anche nell’America australe. Tesi suggestive che contengono una parte di verità, ma appaiono un po’ troppo autoconsolatorie per classi dirigenti incapaci e corrotte. Le ambizioni panamericane di Bergoglio si scontrano con l’«America First» di Trump e i gruppi di interesse che la sostengono. Ma dovranno fare i conti anche con un’eventuale Amministrazione democratica.

Da quando nel 2016 Bergoglio ammonì che «chi costruisce muri non è cristiano», le relazioni con Trump sono state diplomatizzate a intermittenza, ma non sono mai decollate. Il tentativo del presidente Usa di ergersi a difensore dei temi della vita, di contrastare l’aborto, ha ricevuto la prudente approvazione dei settori conservatori dell’episcopato cattolico. Ma perfino la lotta sui cosiddetti «valori non negoziabili», cara a molti vescovi statunitensi, ha finito per distanziarlo e non avvicinarlo a Francesco, che ne ha notato soprattutto l’aspetto strumentale: un pericolo più che un’opportunità per convergere in nome dei valori cristiani.

Un’America che si percepisce come nazione dal «destino manifesto», benedetta da Dio, si presenta agli antipodi rispetto a Bergoglio. Sul piano geopolitico, significa per il Papa emancipazione dalle alleanze militari e dalle fedeltà occidentali: scelta coerente con le intuizioni di Francesco, ma fonte di diffidenza da parte di Washington. È come se la Chiesa cattolica cercasse di divincolarsi da un’identificazione con la cultura del primato del Primo Mondo nella quale, col Pontefice venuto «quasi dalla fine del mondo», è sempre più difficile riconoscersi; e che per la Santa Sede rappresenta un limite di fronte alla crescita dei fedeli in altre latitudini.

Il contraccolpo crea uno sbilanciamento del quale i rapporti con Stati Uniti e America Latina, e all’interno delle due Americhe, diventano una prima linea insieme politica, religiosa e culturale. Non è casuale che dal 2018, nella cerchia di Bergoglio si citi il rapporto con l’episcopato Usa come il fronte più insidioso: sia perché è la Chiesa più ricca, sia perché i cardinali americani sono stati tra i grandi elettori di Francesco nel 2013; e tra di loro serpeggia la delusione. Così l’America Latina, che doveva «infettare» virtuosamente gli Stati Uniti, oggi rischia di dipendere più di prima dai gringos, soffrendo un arretramento economico e democratico. E questo nonostante i problemi additati da Francesco siano ancora tutti lì, perfino peggiorati ed estremizzati.

Quel «è un onore se mi attaccano gli americani», sfuggito al Papa nel volo di ritorno da uno dei suoi viaggi nel 2019, fotografa senza volerlo le tensioni con la Casa Bianca e con i vescovi americani, divisi ma in maggioranza ancora conservatori; e fortemente anticinesi. Su questo sfondo ostile si inserisce il dialogo tra Vaticano e Cina. Il loro accordo biennale provvisorio e segreto, rinnovato il 22 ottobre, punta a risolvere il problema della nomina dei vescovi, superando la dicotomia tra Chiesa «patriottica» subalterna al regime e Chiesa clandestina o «sotterranea», fedele al Papa e perseguitata. Ma ha sempre suscitato l’ostilità degli Usa. L’uscita, senz’altro strumentale ed elettoralistica, del segretario di Stato Mike Pompeo non è stata solo un intervento a gamba tesa per bloccare il rinnovo. Anzi, semmai l’ha reso obbligato per il Vaticano. Ma ha segnalato al cattolicesimo statunitense e agli alleati occidentali che occorre schierarsi tra Pechino e Washington, anche in nome della libertà religiosa; che esiste un «terzo Muro di Berlino» in costruzione, additato brutalmente a Francesco e alle nazioni asiatiche che si sentono minacciate o attratte dalla Cina. L’interferenza è pesante, eppure segnala un punto debole della strategia vaticana. Le cautele, se non le reticenze della Santa Sede sulla repressione a Hong Kong e contro la minoranza musulmana degli uiguri, nell’ovest della Cina, sono vistose. Ma il Vaticano non vuole irritare i circoli del Partito comunista cinese contrari alla distensione. E sospetta che le proteste siano fomentate da Washington.

Caso eclatante, sebbene poco notato. Il 5 luglio 2020 era stata annunciata una dichiarazione papale sui moti di Hong Kong: una decina di righe nelle quali si esprimeva cautamente preoccupazione, all’interno di un discorso più ampio. Le redazioni hanno ricevuto il testo di Francesco. Ma prima che si affacciasse alla finestra per l’Angelus, i giornalisti sono stati informati che la parte su Hong Kong era da considerarsi cancellata: il Papa non l’ha letta, sollevando molte domande sui motivi di quel ripensamento.

Al di là dell’episodio, la sensazione è che a colpire, in Occidente, sia soprattutto la tendenza dei circoli cattolici più vicini a Francesco a esaltare con l’accordo anche il modello di società cinese, assimilandolo a quello della Chiesa. All’inizio del 2018 monsignor Marcelo Sánchez Sorondo, argentino, cancelliere della Pontificia accademia delle scienze sociali, ha sostenuto che chi oggi applica al meglio la dottrina sociale della Chiesa sarebbe la Cina. «Ciò che la gente non capisce è che il principio centrale cinese è il lavoro, lavoro, lavoro. Non c’è altro. In fondo è come diceva san Paolo, “chi non lavora, non mangia”». I cinesi, aggiungeva il presule, «tengono al bene comune, subordinano le cose al bene comune. (…) Essi desiderano dimostrare che sono cambiati, che accettano la proprietà privata». E poi, spiegava Sorondo, la Cina «difende la dignità della persona».

Era un apprezzamento sorprendente, e non isolato. Il problema che si presenta con la proroga dell’accordo è proprio questo: quale prezzo la Chiesa sia disposta a pagare per continuare un dialogo asimmetrico con la Cina; e con quali contraccolpi sul cattolicesimo sotterraneo perseguitato da Pechino, e sul modello di società da perseguire. È chiaro che, con queste premesse, il dialogo sarà plasmato dal regime comunista. «Ogni volta che noi e i cinesi impugniamo un coltello, le nostre mani di cattolici sanguinano, perché il manico ce l’hanno loro. Ma non abbiamo alternativa», spiegano i negoziatori. L’incognita è se sia davvero così, o se esistano alternative meno dolorose e gonfie di mistero.

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