Il poeta Enzensberger si scansa e lascia parlare il saggio signor Zeta.

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di Pietro Citati

Nel suo ultimo libro, Hans Magnus Enzensberger, il maggiore poeta e prosatore tedesco dei nostri giorni, si trasforma nel signor Zeta ( Considerazioni del Signor Zeta, ovvero briciole da lui lasciate cadere, e raccolte da chi lo stava ad ascoltare , pubblicato da Einaudi nella traduzione di Daniela Idra, pagine 138, e 15). Eccolo fin dalle prime righe del libro, tarchiato e rotondetto, con una bombetta sformata e occhi grigio-azzurri ben svegli, ma miopi.
Per quasi un anno intero, lo incontriamo nel parco, in un luogo protetto da viali, dove regna la quiete. Ogni pomeriggio, quando il tempo lo permette, dei passanti, ora due o tre, ora molti, si raccolgono ai suoi piedi ad ascoltare le sue piacevolissime chiacchiere. Il signor Zeta conversa con la folla; e qualcuno raccoglie la conversazione in appunti, sebbene i testimoni siano spesso in disaccordo tra loro. Chi scrive il libro di Enzensberger è uno di questi divertiti e pigri ascoltatori.
Come dice il suo nome, il signor Zeta è l’ultimo nome dell’alfabeto: non è un maestro, né un padre, né un insegnante, né una guida. È uno straniero che ha sempre qualcosa da imparare dal proprio pubblico. Non è un romanziere: non soltanto gli mancano la pazienza e il talento, ma il suo interesse per le crisi matrimoniali, i divorzi e le separazioni, che distinguono ogni romanzo, si esaurisce in fretta.
È dominato dal dubbio e dall’incertezza: «Come posso sapere in anticipo quel che penserò dopodomani, se non posso essere neanche sicuro di quello che pensavo l’altro ieri?».
Detesta l’ambizione, l’orgoglio, la hybris . È spiritosissimo, pungente ma anche conciliante. Ama la ragione e diffida della ragione; e il suo atteggiamento doppio verso di lei si riassume nel paradosso, che esalta la forza della ragione mentre la deride.
Il signor Zeta non si lascia coinvolgere negli eventi: «Naufragio con spettatore», ecco la sua condizione. È squisito e profondo ma si sforza di essere semplice. Osserva, scruta, critica, commenta: non si lagna mai e non brontola mai. Accetta tutte le cose. Mentre parla, scrive una prosa curva, flessibile, che non conosce la linea retta. Ama appassionatamente la precisione.
Prova un interesse illimitato per tutte le cose, massime e minime, vicine e lontane, finite e infinite, metafisiche e filosofiche, osservazioni quotidiane e pensieri banali. Ha letto tutti i libri, sebbene a ogni parola ci metta in guardia dall’eccesso e dell’esibizione della cultura. «È più facile — dice — abituarsi all’infinito che alla finitezza»; e dal finito all’infinito trascorre con mirabile grazia orale, come se stesse suonando una sinfonia. Mentre parla, ha la memoria e la mente piene di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, che rappresenta, per così dire, il lato mistico della sua leggerezza.
La tradizione del suo pensiero discende dal Qohélet biblico, dalle sentenze buddhiste, dagli scettici antichi, e da Montaigne, Goethe, Nietzsche e, più raramente, dalle poesiole di Brecht. La sua è la grande tradizione aforistica del pensiero occidentale, che talora si amplia e si arrotonda in incantevoli raccontini. Così mira alla concentrazione, ma sa anche che la concentrazione è la sua nemica, perché un eccesso di densità cancella la leggerezza, alla quale la sua parola tende sopra ogni cosa.
Possiede una fede ironica nel mito. «Lei è sicuro — domanda — che uccidere gli dèi sia un progetto così promettente? Consideri che Gesù è risorto e che anche Venere e Fortuna vengono a farci visita in ogni possibile metamorfosi e travestimento. Ne deduco che gli dèi godono ottima salute, indipendente dal fatto che noi crediamo a loro oppure no».
Coltiva appassionatamente la teologia classica, della quale si serve in ogni modo ma, al tempo stesso, rielabora i procedimenti della biologia e della chimica. Ammira i moderni fisici teorici e il loro audacissimo tentativo di rinunciare a ogni verifica spirituale, trasformando la scienza moderna in una nuova mitologia.