Il Pil della socialità

di Massimiliano Valerii
Dalla megalopoli cinese alla provincia lombarda: il virus si è inoculato nel polmone economico del Paese.
L’epidemia ha colpito la piattaforma produttiva padana, una delle più ricche d’Europa, estesa dalla pedemontana lombardo-veneta alla città infinita che si allunga da Milano fino al grande polo attrattore di Venezia (un magnete per più di 5 milioni di turisti l’anno), ingloba Verona, Vicenza, Treviso, Padova, lambisce a sud la via Emilia. Da una parte, le zone degli antichi distretti industriali, quelli che sono riusciti a resistere alla concorrenza asiatica e alla recessione scommettendo tutto sulla qualità della manifattura ad alto valore aggiunto. Dall’altra, la grande città come ponte di lancio per andare per il mondo, capace di sfruttare le connessioni con le infrastrutture materiali e immateriali, i centri di ricerca e innovazione, le fiere, le università.
In Lombardia e Veneto, in cui oggi l’allarme è maggiore, vivono 15 milioni di abitanti, un quarto della popolazione italiana. Sono 1,2 milioni le imprese attive nelle due regioni, il 24% del totale del Paese. Qui si produce il 31% del nostro Pil (553 miliardi di euro). E da qui parte il 41% di tutte le nostre esportazioni: 191 miliardi, un valore aumentato del 25% negli ultimi dieci anni. Il Pil pro capite è superiore alla media nazionale del 33% in Lombardia e del 14% in Veneto.
I consumi delle famiglie lombarde sono risaliti di oltre 2 punti percentuali sopra i livelli pre-crisi. Sono questi i luoghi in cui ogni giorno si taglia la punta di diamante del made in Italy, da mettere in mostra sotto i riflettori internazionali nella “Settimana della moda” e al “Salone del mobile”. Insieme all’altro ambasciatore nel mondo dell’Italian style, quella filiera enogastronomica, forte di un legame stretto tra agricoltura e industria alimentare, che trova una collocazione d’eccellenza a Tuttofood, Cibus, Vinitaly, a Milano, Parma, Verona.
Nella prima fase dell’emergenza sanitaria sono entrati in crisi i flussi delle reti lunghe, con il rallentamento degli scambi internazionali (fondamentali per noi, visto che la domanda interna continua a languire), le difficoltà di approvvigionamento di alcuni settori industriali, il calo delle attività di porti e scali merci. Oggi sono invece le reti corte ad essere in fibrillazione, con il rischio che vada in tilt l’osmosi tra il retroterra produttivo del grande Nord manifatturiero e i servizi evoluti della città, tra le fabbriche brianzole, i capannoni veneti e le catene logistiche, i centri commerciali. Da anni viviamo cicli continui di grandi paure, ma quella di oggi ci richiama alla nuda vita. L’isolamento, necessario per contenere la diffusione dell’infezione, spezza le relazioni. Non più solo le relazioni di lungo raggio dell’export, ma anche quelle più minute e più intime del tessuto sociale locale.
Qualcuno paventa la paralisi in quei territori di fabbriche, esercizi commerciali, botteghe, uffici pubblici. Si decide di ora in ora la chiusura di scuole, atenei, impianti sportivi, cinema, teatri, musei, palestre, chiese, luoghi di socializzazione. E con la quarantena, la rarefazione dei contatti e delle frequentazioni umane, c’è anche un “Pil della socialità” che si ferma. Ma quando la posta in gioco è così alta, è bene che gli apprendisti stregoni, che parlano la lingua dell’apocalisse, rimangano inascoltati.
L’autore è direttore generale del Censis
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