IL PUNTO
NELLA singolare notte siciliana in cui i voti restano congelati nelle urne in attesa di essere scrutinati con calma stamani, tre dati sembrano già abbastanza certi. Il primo, è ovvio, riguarda la scontata indifferenza dei siciliani verso un rito elettorale da cui non hanno granché da sperare. La percentuale dei votanti equivale all’incirca a quella del 2012, forse un poco più bassa. Niente di sorprendente, ma chi dovrebbe rammaricarsene sono i Cinque Stelle. Per il tipo di messaggio di cui si sono fatti interpreti e per la retorica che li caratterizza, avrebbero dovuto far breccia proprio in quel 50 per cento e oltre di siciliani che si astiene per i più diversi motivi. Invece la percentuale resta fissa, anzi peggiora, e i seguaci di Grillo, con Di Maio in testa, si sono trovati a remare nello stesso stagno dei partiti tradizionali. Mutuando da costoro vizi e reticenze, proponendosi con la loro medesima opacità, ossia il contrario esatto di ciò che una forza cosiddetta anti-sistema dovrebbe rappresentare. Così la contesa elettorale – ed è il secondo dato certo – si è risolta in un testa a testa fra il M5S e il centrodestra di Musumeci, senza che nessuno sia riuscito a scalfire la montagna delle astensioni. « PAGINA SECONDO gli exit poll di ieri sera, sulla cui attendibilità nessuno ha voglia di giurare, a prevalere di poco sarebbe il candidato del cartello elettorale Berlusconi-Salvini-Meloni. E non c’è da stupirsi, considerando la tradizione della destra in Sicilia. Ma se questo sarà il risultato reale, i Cinque Stelle avranno qualcosa su cui riflettere. Grillo lo aveva capito per tempo: in Sicilia o c’è la vittoria o c’è la sconfitta. Risultati intermedi, giochi di parole in “politichese” per raccontare di “una buona affermazione” servono a poco. Se oggi il M5S non avrà vinto, contraddicendo gli exit della notte, vorrà dire che ha perso. E il cammino verso le politiche sarà d’ora in poi meno lineare e pianeggiante del previsto, soprattutto perché il ritorno del centrodestra è tutto fuorché un fatto locale, o meglio regionale. Il cartello che vince in Sicilia (governare è un’altra cosa, naturalmente) è lo stesso che vincerebbe in quasi tutti i collegi del Nord, se si votasse domani.
Terzo dato, il più clamoroso e significativo sul piano politico: la disfatta del Pd. Benché ampiamente annunciato, il crollo della lista di centrosinistra colpisce. Dal 30 per cento di cinque anni fa al 17-18 di oggi (sempre in base agli exit, non ai dati effettivi). Si dovrà capire se il Pd è sceso sotto il 10 per cento rispetto al 13,5 del 2012. E occorrerà misurare qual è stato, alla fine dei conti, l’apporto dei centristi di Alfano, o di quel che ne resta. In ogni caso, e quali che siano le ragioni della sconfitta, il Pd vede ridursi la coperta: è più debole sia sulla destra sia sulla sinistra. E il tentativo di usare toni e temi populisti per tagliare un po’ d’erba sotto i piedi dei Cinque Stelle, non ha certo dato i risultati sperati. Unica consolazione, se così si può dire: non si è realizzato il sorpasso da parte di Claudio Fava, espressione della sinistra nemica del “renzismo”; anzi, si direbbe che il risultato della piccola coalizione “rossa” è inferiore alle attese.
Il problema è che se si sommano i voti del centrosinistra (compreso Alfano) e quelli della sinistra, ossia Micari e Fava, si raggiunge a malapena il 25 per cento. Un quarto non dei siciliani, bensì di quella metà scarsa di elettori che si sono scomodati per andare al seggio. Un disastro che dovrebbe indurre il Pd a rivedere parecchie delle sue strategie politiche e comunicative. È presto per dire se il segretario Renzi sarà chiamato a dare spiegazioni. In quale sede, poi? Tutti gli organi di un Pd ridotto al lumicino sono saldamente nelle mani del leader. E questo fa la differenza. Per adesso si sa che la strada del “nuovo inizio”, qualunque cosa significhi, passa dal dibattito televisivo di domani sera fra Renzi e Di Maio. Nella speranza che siano veri i sondaggi che collocano un ipotetico centrosinistra allargato (con Pisapia, gli europeisti Bonino e Della Vedova, il socialista Nencini eccetera) intorno al 31 per cento su scala nazionale. Competitivo con un centrodestra oltre il 33 per cento e a distanza di sicurezza dal M5S al 26.
Questo è il cuore della questione. La Sicilia ha dimostrato che la contesa è fra il centrodestra e i Cinque Stelle, con la sinistra tagliata fuori. Se lo schema si replicasse nel resto d’Italia, il Pd rischierebbe l’irrilevanza. Renzi deve rientrare in gioco nel più breve tempo possibile, fin da domani, per ricollocarsi sulla scena da protagonista.
Per lui è l’ultima occasione, ma è difficile che possa avere successo senza un’autentica autocritica.
Terzo dato, il più clamoroso e significativo sul piano politico: la disfatta del Pd. Benché ampiamente annunciato, il crollo della lista di centrosinistra colpisce. Dal 30 per cento di cinque anni fa al 17-18 di oggi (sempre in base agli exit, non ai dati effettivi). Si dovrà capire se il Pd è sceso sotto il 10 per cento rispetto al 13,5 del 2012. E occorrerà misurare qual è stato, alla fine dei conti, l’apporto dei centristi di Alfano, o di quel che ne resta. In ogni caso, e quali che siano le ragioni della sconfitta, il Pd vede ridursi la coperta: è più debole sia sulla destra sia sulla sinistra. E il tentativo di usare toni e temi populisti per tagliare un po’ d’erba sotto i piedi dei Cinque Stelle, non ha certo dato i risultati sperati. Unica consolazione, se così si può dire: non si è realizzato il sorpasso da parte di Claudio Fava, espressione della sinistra nemica del “renzismo”; anzi, si direbbe che il risultato della piccola coalizione “rossa” è inferiore alle attese.
Il problema è che se si sommano i voti del centrosinistra (compreso Alfano) e quelli della sinistra, ossia Micari e Fava, si raggiunge a malapena il 25 per cento. Un quarto non dei siciliani, bensì di quella metà scarsa di elettori che si sono scomodati per andare al seggio. Un disastro che dovrebbe indurre il Pd a rivedere parecchie delle sue strategie politiche e comunicative. È presto per dire se il segretario Renzi sarà chiamato a dare spiegazioni. In quale sede, poi? Tutti gli organi di un Pd ridotto al lumicino sono saldamente nelle mani del leader. E questo fa la differenza. Per adesso si sa che la strada del “nuovo inizio”, qualunque cosa significhi, passa dal dibattito televisivo di domani sera fra Renzi e Di Maio. Nella speranza che siano veri i sondaggi che collocano un ipotetico centrosinistra allargato (con Pisapia, gli europeisti Bonino e Della Vedova, il socialista Nencini eccetera) intorno al 31 per cento su scala nazionale. Competitivo con un centrodestra oltre il 33 per cento e a distanza di sicurezza dal M5S al 26.
Questo è il cuore della questione. La Sicilia ha dimostrato che la contesa è fra il centrodestra e i Cinque Stelle, con la sinistra tagliata fuori. Se lo schema si replicasse nel resto d’Italia, il Pd rischierebbe l’irrilevanza. Renzi deve rientrare in gioco nel più breve tempo possibile, fin da domani, per ricollocarsi sulla scena da protagonista.
Per lui è l’ultima occasione, ma è difficile che possa avere successo senza un’autentica autocritica.
La Repubblica – STEFANO FOLLI – 06/11/2017 pg. 1 ed. Nazionale.