STIAMO attraversando una fase politica di attesa. Perché nella prossima primavera si voterà. E non è chiaro chi vincerà. O meglio: se qualcuno vincerà. Ma soprattutto: se riuscirà davvero a governare. Da solo o in coalizione con altri. I motivi per dubitarne sono molti e fondati.
Fra gli altri, ne cito uno, in particolare. Dopo la lunga era dei “partiti di massa”, è finito il tempo della “democrazia del leader”, come la definisce Mauro Calise (in un saggio pubblicato da Laterza). Senza che si riesca a capire verso dove siamo “in marcia”. A partire dagli anni Novanta, infatti, i partiti si sono rapidamente “personalizzati”, anche in Italia. Fino all’affermazione del “partito personale”, imposto da Silvio Berlusconi, nel 1994.
Forza Italia: il suo partito-azienda. Altri, con risorse ed esperienze diverse, comunque più limitate, ne hanno seguito l’esempio. Lo stesso Pd, sotto la guida di Matteo Renzi, è divenuto PdR. Il Partito di Renzi. Il Partito del Capo. Indifferibile dall’immagine e dalla figura del leader.
Un leader che ha portato a Palazzo Chigi e, prima ancora nel Pd, un “abito mentale da sindaco” (come ha scritto lo stesso Renzi su “Avanti”, l’auto-biografia politica, appena pubblicata da Feltrinelli). D’altra parte, la Lega, il partito che più degli altri riflette il modello tradizionale del “partito di massa”, si è a sua volta personalizzato. È divenuta “Noi con Salvini”. Meglio: il PdS. Il Partito di Salvini. Il quale ha archiviato i riferimenti originari. Per primo, il Capo storico: Umberto Bossi. Ma lo stesso “non-partito” per (auto)definizione, il M5s, resta impensabile senza Beppe Grillo. Il proprietario legale del marchio. Ma, soprattutto, il “centro di gravità permanente” di un universo (non) politico sparso. Sul territorio e nella rete. Ebbene, ho l’impressione che quel tempo, questo tempo, stia finendo. Ne offre una rappresentazione efficace la “Mappa delle Parole” costruita attraverso un sondaggio di Demos-Coop realizzato e pubblicato su Repubblica – nelle scorse settimane. Basta concentrarsi, al proposito, sullo spazio occupato dalle parole della politica. Isolato. Alla periferia del linguaggio pubblico. Rivolto verso il passato. Oscurato dalla delusione. Proprio lì si concentrano tutti i principali partiti e i loro leader. Con una chiara differenza rispetto al passato. I leader non sono più davanti e sopra ai partiti. Non ne costituiscono più la bandiera. Almeno, i porta-bandiera. Solo Salvini, negli ultimi anni, è risalito, rispetto alla Lega. E oggi la affianca, senza, però, sovrastarla. Diversamente dagli altri. Per primo, il Pd che appare ai cittadini (intervistati) maggiormente gradito – e proiettato nel futuro – del proprio leader, Matteo Renzi. Il quale, rispetto al passato recente, ha subìto un forte arretramento. Oggi è, infatti, scivolato sotto al Pd, nella percezione dei cittadini. Lo stesso discorso vale per Grillo, che si pone all’ombra del M5s (almeno nella raffigurazione sociale). Ma riguarda, soprattutto, Berlusconi. L’archetipo e inventore del “partito personale”, anch’egli sopravanzato da FI.
La tentazione, di fronte a questo mutamento di scenario, è di affermare che il tempo dei “capi” è finito. Ci troveremmo, invece, di fronte al declino dei leader (come ha sostenuto Giuseppe De Rita sul Corriere ). E al parallelo ritorno dei partiti al loro posto “tradizionale”, Così, il Pd avrebbe ri-preso il sopravvento sul PdR. Il M5s si sarebbe “normalizzato”. Un partito come tutti. Mentre la Lega avrebbe riaffermato la propria identità di partito, oltre o almeno accanto a – Salvini.
Questa idea appare confermata dai sondaggi d’opinione che registrano il calo – più o meno sensibile – o comunque lo “stallo” della popolarità dei principali “capi di partito”. Renzi, Berlusconi e Di Maio (insieme a Grillo), in primo luogo. Mentre, non per caso, il leader attualmente – e largamente – più apprezzato fra tutti risulta Paolo Gentiloni. “Capo del governo”, ma non “capo-partito”. E, per stile di comunicazione e di azione, in fondo, neppure un Capo. Ciò costituisce un indizio interessante di quanto sta avvenendo. Più che a un “ritorno dei partiti”, a mio avviso, assistiamo al declino del “Partito del Capo” (come lo ha definito Fabio Bordignon). Perché i Capi hanno deluso. La loro esuberanza, nella vita pubblica e sui media, ha suscitato stanchezza. Soprattutto di fronte all’aggravarsi dei problemi economici e sociali. Al diffondersi dell’insicurezza sociale e della sfiducia verso le istituzioni. Così Paolo Gentiloni è divenuto il personaggio pubblico più popolare. Perché non è “il” leader del Pd. Non ambisce a diventarlo (altrimenti Renzi…). Né a fondare, tantomeno a imporre, un nuovo partito personale. Il PdG. Ma agisce sottotraccia. Mentre gli altri leader interpretano, con enfasi, un partito che non c’è. Perché sul territorio e nella società i partiti non si vedono.
Appaiono e si esprimono solo in tv. È il tempo dei “partiti impersonali”, che confliggono e si dividono al loro interno. Soprattutto a centro-sinistra.
Ma non solo. Perché non si vedono più grandi fratture ideologiche e di valore. Mentre le fratture “personali” – l’anti-berlusconismo prima e l’anti-renzismo poi – non riescono più a mobilitare i sentimenti. Né i ri-sentimenti.
Il “partito impersonale”, ormai, diventa visibile soprattutto nelle campagne elettorali. Quando deve, comunque, “personalizzarsi”. Visto che in tv ci vanno le persone, in nome dei partiti. Non le segreterie e le burocrazie. Mentre sui social media è il leader, meglio, la persona, a twittare. A cinguettare con altre persone. Oppure a “esporsi” nella sua pagina FB.
Per questo è facile prevedere, presto e per alcuni mesi, un ritorno dei partiti e dei loro leader. Ma per la stessa ragione è lecito immaginare che sia difficile, su queste basi, costruire governi solidi. Di lunga durata. L’affermarsi di un partito im-personale e s-radicato disegna, infatti, un futuro politico senza volto. Uno spazio in-finito. Senza fini e senza confini da difendere. Ma così ogni alleanza e ogni coalizione risulta instabile. E la politica, per echeggiare Bauman, diventa “liquida”.
Fra gli altri, ne cito uno, in particolare. Dopo la lunga era dei “partiti di massa”, è finito il tempo della “democrazia del leader”, come la definisce Mauro Calise (in un saggio pubblicato da Laterza). Senza che si riesca a capire verso dove siamo “in marcia”. A partire dagli anni Novanta, infatti, i partiti si sono rapidamente “personalizzati”, anche in Italia. Fino all’affermazione del “partito personale”, imposto da Silvio Berlusconi, nel 1994.
Forza Italia: il suo partito-azienda. Altri, con risorse ed esperienze diverse, comunque più limitate, ne hanno seguito l’esempio. Lo stesso Pd, sotto la guida di Matteo Renzi, è divenuto PdR. Il Partito di Renzi. Il Partito del Capo. Indifferibile dall’immagine e dalla figura del leader.
Un leader che ha portato a Palazzo Chigi e, prima ancora nel Pd, un “abito mentale da sindaco” (come ha scritto lo stesso Renzi su “Avanti”, l’auto-biografia politica, appena pubblicata da Feltrinelli). D’altra parte, la Lega, il partito che più degli altri riflette il modello tradizionale del “partito di massa”, si è a sua volta personalizzato. È divenuta “Noi con Salvini”. Meglio: il PdS. Il Partito di Salvini. Il quale ha archiviato i riferimenti originari. Per primo, il Capo storico: Umberto Bossi. Ma lo stesso “non-partito” per (auto)definizione, il M5s, resta impensabile senza Beppe Grillo. Il proprietario legale del marchio. Ma, soprattutto, il “centro di gravità permanente” di un universo (non) politico sparso. Sul territorio e nella rete. Ebbene, ho l’impressione che quel tempo, questo tempo, stia finendo. Ne offre una rappresentazione efficace la “Mappa delle Parole” costruita attraverso un sondaggio di Demos-Coop realizzato e pubblicato su Repubblica – nelle scorse settimane. Basta concentrarsi, al proposito, sullo spazio occupato dalle parole della politica. Isolato. Alla periferia del linguaggio pubblico. Rivolto verso il passato. Oscurato dalla delusione. Proprio lì si concentrano tutti i principali partiti e i loro leader. Con una chiara differenza rispetto al passato. I leader non sono più davanti e sopra ai partiti. Non ne costituiscono più la bandiera. Almeno, i porta-bandiera. Solo Salvini, negli ultimi anni, è risalito, rispetto alla Lega. E oggi la affianca, senza, però, sovrastarla. Diversamente dagli altri. Per primo, il Pd che appare ai cittadini (intervistati) maggiormente gradito – e proiettato nel futuro – del proprio leader, Matteo Renzi. Il quale, rispetto al passato recente, ha subìto un forte arretramento. Oggi è, infatti, scivolato sotto al Pd, nella percezione dei cittadini. Lo stesso discorso vale per Grillo, che si pone all’ombra del M5s (almeno nella raffigurazione sociale). Ma riguarda, soprattutto, Berlusconi. L’archetipo e inventore del “partito personale”, anch’egli sopravanzato da FI.
La tentazione, di fronte a questo mutamento di scenario, è di affermare che il tempo dei “capi” è finito. Ci troveremmo, invece, di fronte al declino dei leader (come ha sostenuto Giuseppe De Rita sul Corriere ). E al parallelo ritorno dei partiti al loro posto “tradizionale”, Così, il Pd avrebbe ri-preso il sopravvento sul PdR. Il M5s si sarebbe “normalizzato”. Un partito come tutti. Mentre la Lega avrebbe riaffermato la propria identità di partito, oltre o almeno accanto a – Salvini.
Questa idea appare confermata dai sondaggi d’opinione che registrano il calo – più o meno sensibile – o comunque lo “stallo” della popolarità dei principali “capi di partito”. Renzi, Berlusconi e Di Maio (insieme a Grillo), in primo luogo. Mentre, non per caso, il leader attualmente – e largamente – più apprezzato fra tutti risulta Paolo Gentiloni. “Capo del governo”, ma non “capo-partito”. E, per stile di comunicazione e di azione, in fondo, neppure un Capo. Ciò costituisce un indizio interessante di quanto sta avvenendo. Più che a un “ritorno dei partiti”, a mio avviso, assistiamo al declino del “Partito del Capo” (come lo ha definito Fabio Bordignon). Perché i Capi hanno deluso. La loro esuberanza, nella vita pubblica e sui media, ha suscitato stanchezza. Soprattutto di fronte all’aggravarsi dei problemi economici e sociali. Al diffondersi dell’insicurezza sociale e della sfiducia verso le istituzioni. Così Paolo Gentiloni è divenuto il personaggio pubblico più popolare. Perché non è “il” leader del Pd. Non ambisce a diventarlo (altrimenti Renzi…). Né a fondare, tantomeno a imporre, un nuovo partito personale. Il PdG. Ma agisce sottotraccia. Mentre gli altri leader interpretano, con enfasi, un partito che non c’è. Perché sul territorio e nella società i partiti non si vedono.
Appaiono e si esprimono solo in tv. È il tempo dei “partiti impersonali”, che confliggono e si dividono al loro interno. Soprattutto a centro-sinistra.
Ma non solo. Perché non si vedono più grandi fratture ideologiche e di valore. Mentre le fratture “personali” – l’anti-berlusconismo prima e l’anti-renzismo poi – non riescono più a mobilitare i sentimenti. Né i ri-sentimenti.
Il “partito impersonale”, ormai, diventa visibile soprattutto nelle campagne elettorali. Quando deve, comunque, “personalizzarsi”. Visto che in tv ci vanno le persone, in nome dei partiti. Non le segreterie e le burocrazie. Mentre sui social media è il leader, meglio, la persona, a twittare. A cinguettare con altre persone. Oppure a “esporsi” nella sua pagina FB.
Per questo è facile prevedere, presto e per alcuni mesi, un ritorno dei partiti e dei loro leader. Ma per la stessa ragione è lecito immaginare che sia difficile, su queste basi, costruire governi solidi. Di lunga durata. L’affermarsi di un partito im-personale e s-radicato disegna, infatti, un futuro politico senza volto. Uno spazio in-finito. Senza fini e senza confini da difendere. Ma così ogni alleanza e ogni coalizione risulta instabile. E la politica, per echeggiare Bauman, diventa “liquida”.
La Repubblica – ILVO DIAMANTI – 31/07/2017 pg. 1,8 ed. Nazionale.