Attenti al tecno-ottimismo, serve più inclusione sociale.

di Enzo Manes
L’ ideologia della Silicon Valley non è solo affascinante, ma anche rassicurante. Saranno mercato e tecnologia a salvare la società. Interrogando i big data e mettendo al lavoro gli algoritmi dell’intelligenza artificiale si può trovare una soluzione a una grande quantità di problemi, anche con implicazioni sociali. È questione solo di tempo, e neppure molto. La rivoluzione digitale promette di rendere obsoleto gran parte dell’armamentario di regole e strumenti che ancora ci trasciniamo dal secolo scorso. Saranno sempre più numerosi gli ambiti in cui i sistemi basati su tecnologie intelligenti potranno prendere decisioni più rapidamente e con minori condizionamenti (e possibilità di errore) di noi umani. Già avviene per funzioni che non credevamo possibile automatizzare, dalle diagnosi mediche alla guida autonoma. Lasciamo dunque che il progresso tecnologico faccia il suo corso, non ostacoliamolo.

Magnifico programma. Peccato che il tecno-ottimismo debba fare i conti con una realtà più complessa. Per un verso la tecnologia sta creando opportunità un tempo impensabili. La ricchezza prodotta a livello mondiale è in crescita. Le condizioni di salute di larga parte della popolazione mondiale sono in costante miglioramento e l’aspettativa media di vita tende a crescere di conseguenza. La percentuale di popolazione mondiale che vive in condizioni di povertà estrema si è ridotta dal 43% a meno del 10% in appena un quarto di secolo. E le generazioni più giovani hanno accesso a un livello di conoscenza e preparazione superiore rispetto alla media di chi le ha precedute. Un contributo sostanziale a questi risultati viene dal progresso tecnologico.

D’altro canto però l’automazione sta distruggendo posti di lavoro che stentano a rinascere in nuovi settori. Le conquiste dell’intelligenza artificiale rendono gli esseri umani sostituibili in molte attività. E le scoperte delle scienze della vita aprono scenari che non siamo attrezzati ad affrontare dal punto di vista etico e sociale. La delega ai sistemi tecnologici, in altre parole, non basta a innescare il cambiamento di cui si sente il bisogno. L’innovazione scatena ansie crescenti e non è una buona idea riporre troppa fiducia nel progresso tecnologico. Anche perché l’ottimismo tecnologico non ha molto da dire su una questione essenziale del nostro tempo: come ristabilire un clima di fiducia sociale.

Che ci sia bisogno di fiducia dovrebbe essere chiaro a tutti. Specialmente nei Paesi più sviluppati, dove è maggiore il timore che le posizioni acquisite vengano perse nella competizione con realtà emergenti. La coesione delle nostre società, che è conseguenza del livello di fiducia sociale, è sempre più a rischio e molti dei tradizionali metodi per crearla e mantenerla non sono più efficaci. È cambiato profondamente quel che negli ultimi settant’anni ha tenuto insieme le nostre società: un equilibrio tra azione liberatrice dei mercati e interventi compensativi dello Stato. Negli ultimi due decenni la crescita e lo sviluppo tecnologico anziché creare più uguaglianza sociale hanno agito in senso contrario. Siamo una realtà molto più frammentata e fragile, e abbiamo la sensazione che il modello alla base dell’incremento di benessere, di cui ha beneficiato gran parte della popolazione mondiale, porti con sé uno squilibrio che ne mina la sostenibilità.

Le conseguenze di questa situazione si riassumono in un senso di instabilità ed incertezza che è soprattutto timore nei confronti del futuro. Siamo una società impaurita che reagisce chiudendosi su se stessa, come se sovranismo e xenofobia potessero restituirci fiducia nel futuro. Così però la fiducia viene ulteriormente erosa e con essa il livello di coesione, da cui dipende il buon funzionamento di tutto il sistema sociale. I risultati li abbiamo sotto gli occhi: istituzioni più deboli, senso di solidarietà sfilacciato, comunità arroccate in difensa.

Si può uscire da questa spirale in cui l’insicurezza si trasforma in vulnerabilità e questa a sua volta riduce il senso di responsabilità sociale? Come possiamo invertire la tendenza? La risposta credo che non vada cercata lontano. La fiducia nasce dal basso. Da azioni positive che ciascuno può intraprendere. Il capitale sociale, che è così importante per lo sviluppo non solo umano ma anche economico, non si rigenera per decreto ma attraverso l’impegno di ciascuno nella cura del bene comune. Alla società del rischio si reagisce investendo in nuovi legami sociali e in responsabilità comuni. Riscoprendo che bene sociale e bene individuale o si sviluppano insieme o deperiscono entrambi.

Le correnti più influenti del pensiero economico per troppo tempo hanno visto nei legami sociali un ostacolo al pieno dispiegamento di una dinamica economia di mercato: meglio avere a che fare con singoli individui-consumatori, senza vincoli e con poche responsabilità verso il prossimo. Oggi però, vedendo gli effetti negativi che la frammentazione sta producendo sullo stesso modello economico che l’ha prodotta, si fa strada una visione diversa. Un’idea di sviluppo in cui l’economia non può fare a meno di riconoscere il valore del bene comune. Le voci a favore di una correzione del capitalismo, in senso più inclusivo e responsabile, sono sempre meno marginali. Anche perché sono evidenti i limiti di una crescita economica senza responsabilità sociale. Dall’intensità del capitale sociale dipende direttamente il livello di sviluppo economico. Non per nulla si stima che il 30% dei profitti delle aziende siano direttamente condizionati dal clima sociale. Quindi la «svolta inclusiva» non nasce solo da motivazioni filantropiche ma è dettata da necessità di sopravvivenza delle imprese, dei cittadini e della Società tutta.

Ecco dunque perché il tecno-ottimismo non ci aiuta a superare la crisi di fiducia sociale. Il suo limite sta nell’indurci a credere che le soluzioni possano essere delegate senza sforzo, e che le applicazioni social possano rimpiazzare la socialità vissuta e il prendersi cura di persona del bene comune. Per ricreare fiducia sociale non basta agire nel virtuale. Ci vuole invece impegno nel reale, a contatto diretto con i problemi delle persone, per promuovere il cambiamento e disinnescare quella politics of anger che è l’altra faccia della sfiducia sociale. Lavorare per questa nuova socialità, per un’idea di bene comune che completa e rafforza il bene individuale, può farci cambiare rotta. Ed è un compito che ci riguarda tutti, enti del terzo settore e istituzioni, cittadini e imprese. Da non delegare.

 

  • Lunedì 31 Luglio, 2017
  • CORRIERE DELLA SERA