Il paradigma del divano

Oblomov si autoinfligge la rinuncia. Sarà felice?
di Stefano Massini
Si può discutere di quale libro sia stato per me più importante in termini di modello narrativo, o di magistero stilistico. Il punto è che oggi, qui, la domanda è diversa: vi devo indicare la lettura “ della vita”, ovvero — si presume — quella che più mi ha dato sul versante umano, alla stregua di un manuale esistenziale. Non ho dubbi, allora, a far subito il titolo di Oblomov, il capolavoro di Gon?arov che ahimè difficilmente rientra nell’Olimpo editoriale e nelle greatest hits della letteratura occidentale. Ed è un vero peccato. Oblomov significò molto per me, qualche decina di anni fa, credo per il semplice fatto che traduce in scrittura la piaga più dolorosa della nostra carne: il passaggio dalla dimensione mentale alla vita vera, agita, reale. Facile è star fermi a pensare, a intuire, a tentare forsennatamente di prevenire ogni male ingabbiandolo nell’illusoria rete del controllo. Vivere è altra cosa, comporta il rischio (e l’avventura) del levare l’ancora delle proprie certezze, affrontando il mare aperto delle emozioni, delle delusioni, dei contraccolpi più o meno immeritati. Ed ecco, non è affatto detto che il genere umano abbondi di combattenti: molti più sono gli esitanti, i dubbiosi, coloro che allo shock del respirare a pieni polmoni preferirebbero l’asfissia di un ripostiglio claustrofobico, purché recintato e controllato. Oblomov appartiene a questa seconda categoria. Non è un eroe, non è un genio, non è un esempio né un rivoluzionario. Oblomov è in fondo un codardo, nella misura in cui lo è ognuno di noi appena si tratta di prendere sul serio in mano il timone di un’esistenza. Ancora più di Amleto, eterno inquilino nel limbo del dubbio, il nostro giovane Oblomov si presenta come ostaggio inquieto di se medesimo, vincolato a lacci e catene di sua esclusiva creazione. Non esistono, in fondo, nemici o antagonisti nel grande libro di Gon?arov, tutt’al più assistiamo a manovre fraudolente di furbi opportunisti, abili a sfruttare i blocchi emotivi del protagonista. Ma tutto qui, niente di più, perché il vero avversario qui è interiore, si annida in un animo scosso e traumatizzato, per il quale tutto è maledettamente complicato e al di sopra delle sue possibilità. Si narra, di lui, che abdicò alla vita molti anni prima, dopo aver commesso un piccolo errore nel suo lavoro d’impiegato, a fronte del quale era talmente insostenibile l’idea di essere ripreso dal capoufficio, che Oblomov non si presentò proprio più. È da allora che tutto per lui si racchiude nella parola rinuncia. Sempre e costantemente, rinuncia. L’incipit del romanzo lo coglie così, sdraiato su quel divano che è diventato un habitat mentale, roccaforte di un progressivo tirarsi indietro che l’ha infine circoscritto lì, nella torre d’avorio di un sofà. Tutto intorno c’è il niente: un servitore svogliato, una casa polverosa, penombra e muffa a gridare la contraddizione con l’ipotetica ricchezza di Oblomov, proprietario terriero. Ma chi si occupa dei contadini e delle rendite? Boh, chissà, qualcuno lo farà, o forse no, in fondo che importa? L’essenziale è sottrarsi alla responsabilità di uscire e prendere contatto con la realtà, con le persone, con il vortice gioioso e drammatico dell’essere (e sentirsi) coinvolti. Tutto cambia solo nel momento in cui un amico sincero, Stolz, accetta di farsi dantesco Virgilio per trarre l’altro dalla selva oscura, in un percorso zoppicante, incerto, tutto fuorché illuminato da garanzie di lieto fine. Ma è dentro questo percorso che Oblomov conosce Ol’ga, colei che nella metafora dantesca potremmo definire Beatrice. Ricordo molto bene la mia sensazione quando, da lettore, pagina dopo pagina, seguii il prender forma dell’amore fra i due: era la sudata ricompensa di Oblomov per l’immane fatica del suo destarsi, per lo strappo con cui si era liberato dall’abbraccio tossico del suo divano. Ol’ga è l’abbraccio della vita, la possibilità di un approdo, la voglia di offrire finalmente un contrappeso all’ossessione che gli altri portino solo grane. Insomma, il loro incontro sigillava l’armonia degli eventi, nel walt-disneyano disegno per cui lo sforzo dell’eroe viene sempre benedetto da una principessa innamorata. E invece no. La grandezza del libro sta forse più che mai nella spietata verità con cui ci pone innanzi la vulnerabilità delle nostre conquiste, la fragilità dei nostri bottini e la durezza insopportabile con cui ci è richiesto di fare i conti con le diverse facce di noi stessi, in quella pluralità di riflessi che fa la complessità e la disarmonia del prisma che siamo. La storia di Oblomov non è la storia di una redenzione, no, sarebbe troppo prevedibile e consolatorio. Tocca dunque seguirne gli alti e bassi, le ascese e le ricadute, i picchi di una lucida sete di riscatto e gli abissi — in picchiata — del rinunciare per indole, se non per quel demone del “ non è cosa per me” che spesso annienta sul nascere i migliori propositi. Non svelerò la rotta che conduce all’epilogo. Basti sapere che niente sarà oggettivo, né avrete un verdetto chiaro da happy end filmico, di quelli utili per far da sprone nei momenti di down. Ahimè, Gon?arov non faceva il coach, il suo mestiere era scrivere romanzi tratteggiando luci e ombre dell’umano essere, ma soprattutto cogliendo quel labile discrimine in cui luce e ombra si compenetrano vicendevolmente. Per cui non c’è qui traccia di sviolinate finali, e se nel sorriso imperscrutabile del protagonista vi sembrerà a tratti di cogliere un bilancio sereno, sarà come dire che tutto sommato egli, privo di passioni vere, è riuscito comunque a strappare un quieto vivere, accontentandosi di una buona cucina, di squisite marmellate, di ricami alle finestre e di un buon camino acceso. Ma è proprio qui il dilemma: si dice che il nucleo di un libro possa essere cercato in una sola domanda, diversa per ogni titolo. Se è vero, credo che per l’opera in questione la domanda sia « accontentarsi è rinunciare?… » . Me lo chiedo tuttora, ed è una gran domanda.
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