Il Papa gesuita e i suoi nemici

L’appartenenza di Bergoglio alla Compagnia di Gesù è all’origine dell’astio che molti provano verso di lui. Dentro e fuori la Chiesa
di Miguel Gotor
Papa Francesco ha tanti nemici dentro e fuori la Chiesa. Il loro astio poggia su una solidissima tradizione anti-gesuitica ben consapevole di quanto l’appartenenza di papa Bergoglio alla Compagnia di Gesù sia solidissima, un elemento identitario forse sottovalutato essendo velato dal richiamo francescano presente nel suo nome pontificale.
Ogni persona è il risultato della propria biografia e ci sono soprattutto due aspetti della vita di questo papa che hanno influenzato il suo modo di interpretare il magistero pontificio. Anzitutto la provenienza geografica «dalla fine del mondo», una terra di missione, di immigrazione e di sincretismo antropologico e religioso come l’Argentina. E poi il suo essere stato il più giovane provinciale dei gesuiti argentini dal 1973 al 1979, durante la dittatura militare del generale Videla. In quel tempo di ferro e di fuoco, tra sequestri, torture, massacri, migliaia di desaparecidos, egli fu costretto a porsi il problema di tenere unita la Compagna di Gesù in un momento in cui era spaccata tra i sostenitori della dittatura e quanti aiutavano i resistenti che avevano intrapreso la strada della lotta armata.
Da questa duplice esperienza scaturisce il primo tratto dell’identità gesuita di papa Bergoglio: la vita della Chiesa si fonda sull’incessante ricerca di una unità degli opposti. Si tratta di un pensiero forte basato sulla consapevolezza della drammaticità della storia e della natura paradossale del cristianesimo, in cui il figlio di Dio è anche integralmente uomo, che muore nella disperata e creaturale consapevolezza di essere stato abbandonato dal Padre.
La sintesi finale spetterà a Dio, ma intanto, nella vita di quaggiù, bisogna abbracciare un pensiero polare ottimistico, che cerca di valorizzare gli elementi di unità e non quelli di divisione. Questa dottrina dell’unità degli opposti si trova già negli scritti del fondatore dei gesuiti Ignazio di Loyola, percorsi come sono da una continua polarità tra la grazia divina e la libertà dell’uomo, ed è stata riproposta nel corso del Novecento da due teologi molto importanti nella formazione di Bergoglio, il francese Herny de Lubac e l’italo-tedesco Romano Guardini, al cui studio del pensiero il futuro pontefice pensò di dedicare la sua tesi di dottorato in teologia. Un secondo elemento gesuitico è visibile nello stile di papa Francesco: affabile ma diretto, fedele all’antico precetto dei padri della Compagnia di Gesù: « Suaviter in modo, sed fortiter in re ». Egli è attento non soltanto alla sostanza delle cose, ma al come sono dette e da ciò deriva una speciale sensibilità al mondo della comunicazione con cui interloquisce senza particolari intermediari, con una vigilata e dissimulata spontaneità. Questo papa non vuole essere ricordato come un teologo, ma come un pastore che ha ben presente la condizione di smarrimento dell’uomo di oggi e perciò pensa complesso ma parla semplice secondo la tradizione gesuitica della ricerca della massima unità possibile tra la dimensione intellettuale e quella dei semplici.
Un terzo aspetto, forse quello decisivo, è la predisposizione al dialogo. Per un gesuita la propria identità non è una fortezza da difendere, ma un ponte verso gli altri, che sono tanto più interessanti quanto da lui distanti. In questa visione il dialogo diventa un metodo che si fa sostanza: non significa, ovviamente, rinunciare ai propri convincimenti, ma pensare che una verità figlia del confronto con l’altro sia più larga e inclusiva e, quindi, maggiormente fondata. In un gesuita l’identità e il dialogo non sono mai dimensioni contrapposte perché la verità non è un ciondolo da esibire, ma il prodotto di una ricerca che si arricchisce mediante la ricerca stessa.
Questa inclinazione al dialogo deriva dalla natura missionaria ed esplorativa dei gesuiti, un abito mentale che li ha fatti diventare degli specialisti delle terre vergini, che fossero i continenti sconosciuti da cristianizzare, i territori interiori di un fanciullo da educare o la coscienza di una persona da penetrare con la confessione.
Nella sua ultima enciclica Fratelli tutti , papa Francesco illustra bene questa attitudine curiosa proprio nel paragrafo dedicato al “Dialogo e all’amicizia sociale”, quello in cui spiega una semplice verità, ossia che «la vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita» riprendendo un verso del poeta e cantautore brasiliano Vinícius de Moraes. L’esistenza — aggiunge — è un poliedro dove il tutto è superiore alle singole parti e ciò obbliga a includere i marginali e le periferie «perché nessuno è inutile, nessuno è superfluo».
Infine, l’impronta ignaziana e gesuitica ha indotto papa Bergoglio ad abbracciare un’idea militante e combattiva della Chiesa. La cattolicità non deve rinchiudersi in una dimensione di testimonianza catacombale, bensì sfidare il mondo mettendosi in viaggio sino a rischiare le proprie certezze che, se sono solide, non si perderanno.
In questo modo, come tanti altri suoi predecessori gesuiti nella storia, papa Bergoglio si è trasformato in un grande destabilizzatore di ortodossie precostituite: la sua Chiesa è una trincea o, come ha detto, «un ospedale da campo» che prova a curare un mondo battuto dai flagelli antichi delle disuguaglianze e ora dalla pandemia, trovandosi sempre lungo un limite.
Perché il gesuita è soprattutto un militante del limite che trasforma i confini in frontiere e in luoghi di scambio come, ad esempio, è avvenuto nel 2019 con la dichiarazione di Abu Dhabi, firmata da papa Francesco insieme con il Grande Imam Ahmad al-Tayyib, in cui entrambi hanno dichiarato di «adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio» e affermato che è stata la stessa sapienza divina ad avere voluto il pluralismo religioso.
Negli anni Trenta del Novecento Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere precisava che gli integralisti cattolici erano soliti chiamare i gesuiti «modernizzanti» e «modernizzantismo » la loro tendenza. Egli notava che il cattolicesimo si affidava alla Compagnia di Gesù ogni qual volta si era «squilibrato troppo a destra» e occorreva, «pertanto nuovamente “incentrarlo” nei gesuiti, cioè ridargli una forma politica duttile, senza irrigidimenti dottrinari, con una grande libertà di manovra»: ecco, il pontificato del gesuita Bergoglio sta facendo proprio questo, sta restituendo una grande libertà di manovra al cattolicesimo.
Per questo dà fastidio a tanti e per questo il suo punto di vista pastorale, misericordioso e missionario deve in- teressare credenti e non credenti tra le piaghe tormentate di una storia che ha ripreso a correre e a sanguinare oltre i confini delle antiche certezze.
https://www.repubblica.it/