Nell’ampio ambiente in semioscurità della piazza del Pirelli HangarBicocca, il primo dei tre grandi locali in cui si snoda Breath Ghosts Blind, la mostra site-specific di Maurizio Cattelan, un essere umano e un cane riposano, uno di fronte all’altro, in un alone di luce. Il chiarore che investe dall’alto il marmo bianco di Carrara di cui sono fatte le due sculture sembra emanato dai loro corpi. Questi due esseri rispecchiano una condizione primitiva di esistenza: dormono a contatto con la terra, si scaldano, si proteggono e si fanno compagnia a vicenda. La loro unica attività sembra essere respirare, come suggerito dal titolo, Respiro. Sono l’espressione di una tentazione che di tanto in tanto si affaccia in noi, quella di lasciarsi vivere dalla vita. L’alone di luce li avvolge e crea intorno a loro un’isola di pace, silenzio e sacralità. Chi sia l’uomo non ci è dato saperlo, ma la forma del naso suggerisce che si tratti dell’ennesimo autoritratto dell’artista.

Avvolti dalla penombra non ci accorgiamo che qualcuno ci osserva dall’alto. Solo quando svoltiamo l’angolo e arriviamo nelle navate ci rendiamo conto della presenza di una moltitudine di piccioni appollaiati su travi, controventi, arcarecci e correntini del capannone. Sono gli stessi piccioni impagliati che abbiamo visto in altre istallazioni di Cattelan con titoli diversi: Tourists, presentata alla Biennale di Venezia del 1997, e Others, presentata sempre alla Biennale nel 2011. Queste tassidermie sono presenze che cambiano natura a seconda del luogo in cui si trovano e dell’intenzione dell’artista, pur portandosi dietro il significato di quelle precedenti esperienze. Cambiano natura come i suggerimenti che Cattelan pesca talvolta da opere di altri artisti e che riusa con significati diversi che si stratificano e si aggiungono ai precedenti contenuti.

In questo secondo grande spazio i piccioni sembrano ingabbiati nella struttura di travi di metallo lungo le pareti dell’hangar. Fanno pensare a polli in batteria, a una vita da prigionieri, da fantasmi (il titolo di questa installazione è Ghosts) che non possono sfuggire alla loro condizione. Ci rivediamo in quegli esseri incasellati ciascuno nel proprio spazio. Solo qua e là piccoli gruppi si distanziano dalla massa. I nostri sguardi si volgono verso l’alto: qui non c’è più alcun contatto con la terra come avviene per l’uomo e il cane. La sensazione che ne ricavo è quella di trovarmi in una sorta di panopticon, il “carcere ideale” progettato in modo che da una torre centrale un unico sorvegliante, invisibile come un fantasma, possa controllare tutti, senza che questi ne siano coscienti. Solo che adesso a osservami dell’alto in questo grande spazio aperto dalle pareti nerastre e semibuie, mimetizzati nella penombra, sono centinaia di piccioni, centinaia di occhi. Sarà per le regole del distanziamento, per le dimensioni dello spazio – lungo 112 metri, largo 26 metri e alto 19 metri – sarà per la luce scarsa, per le pareti scure, ma qui ci si sente soli anche se ci sono altre persone. Rispetto al panopticon la situazione è dunque capovolta, una sola persona è scrutata da centinaia di occhi. Del resto il panopticon prende il nome da Argo Panoptes, il gigante della mitologia greca con un centinaio di occhi. E centinaia infatti sono gli occhi dei piccioni che ci osservano dall’alto.

Dalla porta che consente l’accesso al terzo spazio in cui si snoda la mostra, il cubo, scorgiamo una diversa luce. Attraversiamo la navata e ci dirigiamo dunque verso il cubo, lo spazio alto 25 metri che chiude l’area espositiva. Attraverso la porta intravediamo una parete nera che, mano a mano che ci avviciniamo, si rivela essere prima un parallelepipedo, poi una sorta di totem, poi una crocifissione e, infine, scopriamo che si tratta di un pilastro nero su cui è incastrato un aereo anch’esso nero, senza finestrini laterali e nella cabina di pilotaggio. Il titolo dell’opera, Blind, ben si adatta a questo veicolo cieco, il cui volo può terminare solo in uno schianto.

LA CORSA CIECA

Anche in questo spazio un gruppetto di piccioni osserva la scena dall’alto. L’associazione con i fatti dell’11 settembre 2001 è immediata. Non si tratta però solo di un richiamo a un evento scolpito nella nostra memoria trasformato in monumento, ma di un monumento all’inevitabile fine della nostra corsa cieca. C’è lo stesso senso dell’assurdo che ho trovato in Daddy, Daddy (2008), un’opera più colorata ma piuttosto drammatica in cui un Pinocchio nella versione cartone animato di Walt Disney galleggia a braccia aperte, faccia in giù, nell’acqua. Questa sua posa da crocefisso fa risuonare il titolo come un’inascoltata invocazione al Padre. Completa il progetto dell’HangarBicocca un poster – non in mostra – che riproduce l’immagine fotografica di un uomo in pantaloncini da bagno rossi e maglietta bianca che tiene tra le mani una grande foglia che gli copre il volto. Sull’immagine, magrittiana, l’artista ha scritto di suo pugno: “Be Water”. Tutto lascia pensare che l’uomo sia lo stesso artista, ma non abbiamo elementi per esserne certi. Si presuppone che l’immagine debba fornire elementi per una corretta interpretazione dell’esposizione, tuttavia questi elementi non sono sufficientemente espliciti per darle un senso inequivocabile. Ed è qui il punto: questa attitudine avvicina Cattelan da un lato al pensiero di Foucault, che ha messo in luce come da Cervantes in poi le parole non contrassegnano più in modo univoco le cose, ma “navigano nell’avventura”, dall’altro lo avvicinano all’ermeneutica di Gadamer, secondo cui le possibilità di lettura di un’opera vanno sempre al di là delle intenzioni dell’artista che l’ha creata. Inglobando nella sua estetica le strategie del marketing, Cattelan si è sempre confrontato con l’ambiguità delle immagini e con la molteplicità di significati che ognuna di essa può contenere. Sottraendosi a una interpretazione rigida del proprio lavoro, vuole mettere in moto il pensiero. Più che incarnare un significato la sua opera incarna una stratificazione di significati, quanto basta per non chiuderne la narrazione all’interno di un confine definito.

In Cattelan c’è sempre un senso di sconfitta affrontato con una non troppo velata ironia in una narrazione ricca di continui rimandi autobiografici. Queste opere non strappano mai una risata, la nostra reazione non si spinge oltre un sorriso amaro. Ricorrono i temi della difficoltà dell’esistenza, della morte, della presenza del bene e del male nel mondo, dell’insofferenza per l’autorità e per le regole dei diversi sistemi di potere. Il modo in cui Cattelan sviluppa questi temi denota una visione pessimista, ma non rassegnata, dell’esistenza. Bastano pochi esempi per mettere a fuoco la poliedrica personalità dell’artista e le implicazioni marcatamente esistenziali delle sue sculture e installazioni. Nel 1994 espose alla Newburg Gallery di New York un asino vivo attaccato a un carro a due ruote con un carico talmente pesante e sbilanciato rispetto al peso dell’animale da sollevarlo da terra. Lo stesso artista ha dichiarato di riconoscersi in quell’animale. Un’altra opera, Bidibidobidiboo, realizzata due anni dopo, presenta uno scoiattolo impagliato seduto su una sedia con la testa riversa su un tavolo in una cucina spoglia, con pochi arredi in miniatura. Accanto al piede del tavolo, una pistola ne testimonia il suicidio. Nella pubblicazione a cura di Nancy Spector che ha accompagnato la sua mostra al Guggenheim Museum di New York, tenutasi a cavallo tra il 2011 e il 2012, si fa notare che le dimensioni dell’opera costringono lo spettatore a inginocchiarsi per poterla osservare da vicino, un gesto che implica anche rendere omaggio all’animale umanizzato che si è tolto la vita.

A testimoniare il pessimismo dell’artista basti pensare poi a Love saves life (1995), le tassidermie di un asino, un cane, un gatto e un gallo posti l’uno sull’altro con riferimento alla favola I musicanti di Brema che vede quattro vecchi animali da fattoria fuggire insieme dai maltrattamenti dei padroni che vogliono sopprimerli. Nella favola il loro gesto di ribellione verrà premiato. Invitato a esporre quell’opera due anni dopo, Cattelan ne presenterà una versione in cui degli animali resta solo lo scheletro: il loro sogno si è infranto dinanzi alla dura realtà che non lascia spazio alle utopie. Antropomorfizzando gli animali, Cattelan ne fa la metafora di una condizione esistenziale in cui le visioni utopiche sono destinate al fallimento. Egli reagisce a questa visione pessimista dell’esistenza con l’ironia. È l’ironia l’antidoto che non consente al dramma di farci cadere nel più profondo e improduttivo nichilismo.

DIALOGO CON CAMUS

In Respiro, l’installazione formata da due sculture presentata nella prima area della mostra all’HangarBicocca, curata da Roberta Tenconi e Vincente Teodolì (fino al 20 febbraio), l’uomo che dorme accanto al suo cane sembra aver raggiunto la stessa libertà del suo animale da compagnia, superando così la tentazione di trovare la risposta alle proprie difficoltà nel suicidio, come lo scoiattolo di Bidibidobidiboo. «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio», scrive Albert Camus. «Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia». Questo pensiero con cui Camus apre Il mito di Sisifo mi torna in mente di fronte alle opere di Cattelan e non solo perché quello del suicidio è un tema che ha esplicitamente messo in scena in Bidibidobidiboo, ma perché dai suoi lavori emerge sempre l’assurdità della vita. A differenza di Camus che ne L’uomo in rivolta privilegia la tragicità giungendo alla conclusione che è preferibile morire in piedi affermando da uomini liberi i propri valori piuttosto che vivere in ginocchio, all’aspetto tragico Cattelan affianca un’ironia amara, venata da una sottile malinconia. C’è un ultimo lavoro di Cattelan cui voglio fare cenno, Stephanie (2003). Peter Brant, editore, produttore e collezionista americano considerato tra i potenti del mondo dell’arte, gli aveva commissionato un ritratto della moglie, la nota modella Stephanie Seymour. Cattelan realizzò in cera, in chiave realistica, un busto della donna nuda, con le mani sui seni, da attaccare alla parete come un trofeo di caccia. Citando Camus potremo dire di Cattelan che non è la lotta che lo obbliga a essere artista, ma è l’arte che lo obbliga a lottare.