Ugo Tramballi
«Libertà di parola non è una licenza per dire cose stupide». La maglietta azzurra sulla quale è stampata la considerazione, era il pezzo più venduto nel book-shop del Newseum di Washington. Chiamarlo Museo del Giornalismo, quando fu aperto nel 1997, sarebbe stato troppo enfatico. E anche un po’ iettatorio chiudere in un “museo” un’attività così viva come era allora la stampa. Così il Freedom Forum, responsabile dell’iniziativa, si era inventato il gioco di parole piuttosto banale e a prima vista non chiaro, fra notizie (news) e museo.
Non ha portato ugualmente fortuna. Alle cinque del pomeriggio del 31 dicembre 2019, nella commozione di alcuni e il disinteresse dei più, il museo ha chiuso e probabilmente non riaprirà più. Mobilio, suppellettili e soprattutto i 310mila pezzi che esibiva, sono stati portati in un magazzino del Maryland in attesa di eventi che non accadranno. L’eventualità di una riapertura «è davvero indeterminata», spiega la direttrice Carrie Christoffersen.
C’erano l’antenna della torre Nord del Word Trade Center, la seconda a crollare; pezzi del Muro di Berlino e la porta del Watergate; l’annuncio della morte di John Kennedy con la voce rotta di Walter Cronkite; i pezzi di un elicottero abbattuto in Vietnam e delle macchine fotografiche dei giornalisti che erano a bordo. C’era il memoriale con le foto di 2.344 giornalisti morti in prima linea, uccisi dai narcos o dalle dittature, tra le quali quelle di Ilaria Alpi, Mihran Hrovatin e Maria Grazia Cutuli. Al terzo piano riposavano i resti di Larry Burrows di «Life», Henry Huet di «Associated Press», Kent Potter di «Upi» e Keizaburo Shimamoto di «Newsweek», uccisi nel 1971 durante un’incursione americana nel Laos. Il museo le ha consegnate all’ufficio Missing in Action del Pentagono.
Dalla facciata dell’edificio di nove piani – due dei quali sotterranei – al 555 di Pennsylvania Avenue, presto sarà rimosso anche il Primo Emendamento della Costituzione, scritto a caratteri cubitali: «Il Congresso non potrà emanare leggi per il riconoscimento di una religione o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d’inviare petizioni al governo per la riparazione dei torti subiti». I padri fondatori lo scrissero nel 1791. Il progetto di riadattamento voluto dai nuovi acquirenti del palazzo non prevede di lasciarlo. C’è una sola buona notizia nella chiusura del Newseum: chi ha comprato per 372,5 milioni di dollari non è una banca, un grande magazzino né Google o Facebook ma la Johns Hopkins University. Ne farà un centro per gli alti studi.
La ragione della chiusura del Newseum è economica: aveva accumulato due milioni e mezzo di passivo. Nonostante 10 milioni di visitatori in tutti questi anni, i biglietti a 25 dollari l’uno coprivano solo il 10% del bilancio: anche perché scolaresche e gruppi avevano prezzi speciali e ai giornalisti di tutto il mondo bastava mostrare il tesserino per entrare gratis. Inoltre il Newseum era nell’area del National Mall amministrato dallo Smithsonian nei cui musei l’ingresso è libero: la concorrenza era imbattibile. Il mausoleo della stampa era originariamente a Rosslyn, oltre il Potomac, in Virginia. Con un investimento da 450 milioni fu trasferito sulla Pennsylvania Avenue nel momento più sbagliato: nel 2008, all’inizio della grande crisi economica.
Ma il fallimento non è dipeso solo da questo. Come ha scritto il necrologio del Washington Post, «il Newseum ha totalmente fallito nel catturare l’immaginazione del Paese. La gente non vi andava in pellegrinaggio come nei memoriali e nei monumenti del Mall». Quando fu trasferito sulla Pennsylvania, il Freedom Forum pensava di conquistare una posizione strategica, a metà strada fra la Casa Bianca e la collina del Campidoglio. A un certo punto del cammino politico degli Stati Uniti, quel luogo è diventato un ridotto isolato dalle forze nemiche: da una Casa Bianca occupata da Donald Trump secondo il quale i giornalisti sono «nemici del popolo», e un Senato repubblicano che crede acriticamente alle «verità alternative» offerte dal suo leader. «Mai abbiamo avuto un presidente così totalmente privo d’integrità personale, così abile nel mentire e nell’abusare del suo potere con tale impunità e così ciecamente seguito da un partito amorale», scrive Thomas Friedman sul «New York Times». Sono ovvietà che negli Stati Uniti non fanno più scalpore.
Nato in un’età di grandi speranze, il Newseum è morto nei giorni delle fake news. Vittima di un’indifferenza collettiva, umiliato da forze più potenti di quel Quarto Potere che in America credeva di essere potentissimo. Travolto da quel cyber-spazio acclamato per essere la suprema forma di democrazia, prima di scoprire che era il Cavallo di Troia della forma più violenta di populismo e falsificazione delle notizie. «Stiamo creando un mondo nel quale tutti possono entrare senza privilegi o pregiudizi accordati dalla razza, dal potere economico, dalla forza militare o dalla nascita», era venuto a dire nel 1996 al World Economic Forum di Davos, l’entusiasta filosofo del web John Perry Barlow. Riconoscente, l’Isis ancora ringrazia.
Per la gente il Newseum non era ormai che il tempio di un giornalismo elitario la cui “età dell’oro” era iniziata ed esaurita nell’ultimo quarto del XX secolo. Nel 1968 la diffusione dei giornali era di 62,5 milioni di copie, nel 2016 di 34,7 con 50 milioni di americani in più; nel 2007 la stampa raccoglieva pubblicità per 45,4 miliardi di dollari, calata a 18,3 nel 2016 quando Google ne rastrellava quattro volte di più di tutta la stampa americana. «La prosperità del giornalismo è durata per una breve stagione storica in un insolito insieme di circostanze economiche e politiche che difficilmente si ripeteranno», scrive Nicholas Lemann, preside della Columbia Journalism School di New York. «È stato un felice incidente, non una caratteristica incorporata nella società americana».
Tuttavia il Newseum orgogliosamente rappresentava chi continua a credere a quel Primo Emendamento che dalla sua facciata era gridato ai passanti sempre più distratti di Pennsylvania Avenue. Al giornalismo non serviva più un museo ma una trincea dentro cui combattere.