di Vincenzo Trione
Gli scenari dell’arte del nostro tempo appaiono attraversati da tensioni opposte. Sempre più diffusa è l’adesione ai riti propri della celebrity culture : nei grandi eventi espositivi internazionali, dominano centralità del mercato, intrattenimento visivo, culto di ciò che è «nuovo». L’altra faccia di questa dilagante superficialità si manifesta nella necessità avvertita da molti artisti di riaffermare — in maniera non sempre sincera — le ragioni dell’impegno e della partecipazione.
Si rifletta sul fenomeno dell’«art of migrants». Ne sono protagonisti artisti, cineasti, scrittori ma anche filosofi, i quali condividono il bisogno di misurarsi con una tra le questioni civili, sociali, giuridiche e antropologiche più decisive della nostra epoca: le migrazioni. Un trauma che sta ridisegnando i confini della nostra cultura e gli spazi della politica e dell’etica. Si tratta di una trasformazione che esige paradigmi di pensiero, di rappresentazione e di risemantizzazione adeguati alla portata dei cambiamenti in atto, come è stato sottolineato da Donatella Di Cesare in Stranieri residenti. Per una filosofia della migrazione (Bollati Boringhieri). In questo libro si suggerisce un modo diverso per concepire il concetto di migrazione. Che va inteso non come «devianza da arginare», né come «anomalia» da demonizzare, ma come «atto esistenziale e politico il cui diritto deve essere ancora riconosciuto». Lo «straniero interno» fa vacillare le sicurezze di chi si ritiene al sicuro; mette in crisi la «purezza mitica» dello Stato; apre a una diversa forma di «coabitazione».
Potremmo muovere da queste riflessioni per cogliere le ragioni sottese a molte opere letterarie e artistiche ispirate al drammatico destino di nomadi, profughi, apolidi e rifugiati. Le accomunano alcuni tratti. La volontà di sottrarsi a ogni formalismo e a ogni concettualismo. Il bisogno di svelare i lati più perturbanti del presente. La necessità di estrarre dalla nube mediatica in cui siamo avvolti poche «situazioni» esemplari. E ancora: una sensibilità di tipo sociologico. L’intenzione di documentare alcuni eventi tragici dell’età contemporanea: talvolta spettacolarizzandoli ed estetizzandoli. Infine, l’intenzione di pensare l’arte come pratica civile.
Pur se affini, le proposte dei protagonisti dell’«art of migrants» sembrano seguire sentieri non contigui, delineando i contorni di una geografia poetica suddivisa in vari continenti.
I testimoniPrevalenti sono le istanze testimoniali. La maggior parte di questi involontari eredi del neorealismo ci consegna reportage brucianti, efficaci, urgenti, in presa diretta. Emergenze sociali, libertà negate, sofferenze, conflitti e drammi vengono restituiti in maniera esplicita: senza mediazioni linguistiche.
Alcune tappe di questo viaggio al termine della notte della civiltà. Gli scatti dei fotografi della Reuters (Pulitzer 2016). La ricerca di Tindar, che colleziona impronte di migranti per comporre quadri astratti. L’installazione-workshop di Olafur Eliasson Green light . L’«azione» di Giacomo Sferlazzo, artista e attivista siciliano che, dal 2005, insieme con il collettivo Askavusa, ha raccolto fotografie e relitti rinvenuti al largo di Lampedusa — pagine di libri, utensili da cucina, pacchi di cous-cous, scarpe, vestiti — che poi ha raccolto in un’esposizione intitolata Porto M . E la recente mostra Welcome Blanket (allo Smart Museum of Art di Chicago) allestita da Jayna Zweiman, che ha radunato 3.200 coperte da un metro per un metro fatte a mano, arrivate da tutto il mondo, per formare 3.200 chilometri di tessuto: alludendo alla misura del muro anti-migranti che Trump vorrebbe costruire tra Stati Uniti e Messico.
Nel medesimo orizzonte potremmo iscrivere film come Fuocammare di Gianfranco Rosi o come Human Flow di Ai Weiwei, un kolossal che registra, in modo piuttosto patinato, guerre, carestie, malattie, cambiamenti climatici e crisi dei rifugiati. E romanzi come Appunti per un naufragio di Davide Enia (Sellerio), Voci del verbo andare di Jenny Erpenbeck (Sellerio) e come lo struggente Partire. Un’odissea clandestina di Bruno Le Dantec e Mahmud Traoré (in uscita da Baldini e Castoldi).
Gli epiciMolti artisti, invece, preferiscono «usare» la cronaca, liricizzandone e sublimandone certi momenti. Si pensi a tante opere esposte nella mostra La Terra Inquieta (curata da Massimiliano Gioni), tenutasi qualche mese fa alla Triennale di Milano: la processione di Alys, la mappa del mondo dissolta di El Anatsui, l’attesa di alcuni profughi su una scaletta sospesa nel nulla di Adrian Paci. Inoltre, si pensi alla monumentalizzazione del dolore effettuata da Adel Abdessemed con il suo barcone pieno di rifiuti, da Mimmo Paladino nel meraviglioso archivio di tracce disperse ( Porta di Lampedusa ); da Antonio Biasiucci in un austero collage fotografico di gesti di carità; da Vanessa Beecroft nella performance al Pac di Milano in cui dodici africani in abiti da sera strappati e impolverati si sono ritrovati — come in un’«altra» ultima cena — intorno a una tavola trasparente; e da Ai Weiwei nella sequenza di gommoni arancioni incastonati nelle finestre di Palazzo Strozzi di Firenze.
La stessa tensione epica si ritrova in un film come L’insulto di Ziad Doueiri e in un romanzo come Exit West di Mohsin Hamid (Einaudi): quasi un Guerra e pace della postmodernità. Due avventure individuali che si fanno universali. La storia di Nadia e Saeed, in transito da un continente all’altro. Per resistere. E per difendere il loro amore giovanile in un mondo disumano. «Quando emigriamo assassiniamo coloro che ci lasciamo alle spalle».
Gli empaticiInfine, Carne y Arena di Alejandro Iñárritu (alla Fondazione Prada di Milano). Un’opera multi-narrativa, che ci fa rivivere intensamente le fasi del viaggio di un gruppo di rifugiati dell’America centrale. Un’installazione, che è anche documentario e sperimentazione di realtà virtuale. Lo spettatore compie un’irripetibile esperienza emozionale. Gli viene chiesto di entrare da solo nella mostra e di spogliarsi di qualsiasi ingombro tecnologico. Non può scattare foto. Dapprima, egli accede a una stanza scarna, poco illuminata, con panche al di sotto delle quali ci sono tante calzature usate. Deve togliere le scarpe e aspettare un segnale di allarme. Solo allora può entrare in un ampio spazio buio. Sotto i piedi, sente sabbia mista a ghiaia. Due assistenti gli forniscono, insieme con le cuffie per il sonoro, un casco provvisto di un visore ottico, che permetterà la visione a 360 gradi di un contesto «finzionale».
D’ora in avanti, per sei minuti, egli può muoversi quasi liberamente. Nei suoi occhi, tre sequenze. La prima: è al confine tra Usa e Messico, insieme con un gruppo di profughi. Che tenta di superarlo, ma non ci riesce: a causa dell’intervento di alcune truppe di terra, armate e aggressive. Intanto, un elicottero gli si avvicina, accecandolo con un faro. Nella seconda parte, il visitatore scopre feriti, contusi, forse un morto. Poi, viene minacciato da un soldato, che gli punta contro un fucile, urlando parole incomprensibili. Infine, l’alba. Intorno, silenzio, vento. Cespugli, cartacce, stormi di uccelli. Si esce. E si attraversa un tunnel nel quale si aprono light-box, dove compaiono i protagonisti reali dello «spettacolo» appena visto: il racconto di questa odissea.
Un’opera sofisticata, cui ha dedicato una lucida analisi Pietro Montani in Tre forme di creatività: tecnica, arte, politica (Cronopio). Un’installazione ambigua. Che può essere osservata dall’esterno. Ma è anche immersiva. Sappiamo che stiamo assistendo a una finzione. Ma abbiamo pure la sensazione di trovarci insieme con i profughi messicani. Oscilliamo tra passività e partecipazione.
«Ho sperimentato la tecnologia della realtà virtuale per far entrare gli spettatori nei panni degli immigrati, sotto la loro pelle e dentro i loro cuori», ha detto il regista premio Oscar, la cui ambizione è (anche) politica. Egli aspira a generare in noi empatia. Vuole renderci consapevoli della condizione umana ed esistenziale dei profughi, che vengono osservati non dall’esterno, ma — per qualche minuto — dall’interno. Ci fa sentire le loro disperazioni, le loro ansie, le loro paure. Infine, mira ad abbattere i muri reali e psicologici che ci difendono. Per metterci dalla parte di coloro che, senza difese, arrivano da fuori. E spingerci a interrogarci sul destino migrante che è proprio di ogni individuo. Del resto, ha scritto Hamid, «siamo tutti migranti attraverso il tempo».
Domenica 31 Dicembre 2017, La Lettura.