di Paolo Lepri
Il mondo si augura che Benjamin Netanyahu non abbia detto la verità quando poco prima del voto ha escluso la possibilità di permettere la nascita di uno Stato palestinese. È un gigantesco paradosso che i residui tentativi della diplomazia internazionale di riavviare il moribondo processo di pace siano affidati alla speranza che Bibi abbia mentito. Lo auspica in primo luogo proprio chi, come gli americani, lo ha spesso incolpato di essere un bugiardo. Non è finora cambiato molto, a Washington, da quando l’allora segretario di Stato James Baker III ordinò nel 1990 di non fare entrare nelle stanze di Foggy Bottom quel vice ministro degli Esteri dalla lingua tagliente che si sarebbe fatto conoscere un anno dopo come l’inflessibile portavoce della delegazione israeliana alla conferenza internazionale di pace a Madrid. Quella in cui i siriani tirarono fuori la fotografia di Yitzhak Shamir accusandolo di essere un terrorista. Una lezione impartita senza scrupoli dalla cattedra di un regime sanguinario. Per molti, però, erano loro «i buoni».
La visita compiuta recentemente da Netanyahu negli Stati Uniti e l’intervento al Congresso per criticare la politica medio-orientale dell’amministrazione Obama hanno rappresentato il momento culminante di un rapporto da sempre molto difficile. Ma forse sarebbe il caso non fermarsi alla superficie. Anche un pacifista impegnato come David Grossman sostiene per esempio che il leader del Likud ha detto in quell’occasione molte cose giuste. «L’Iran — ha ricordato l’autore di Vedi alla voce: amore — minaccia il mondo intero». È effettivamente probabile, però, che il primo ministro israeliano riconfermato dagli elettori non scelga il rischio dell’isolamento. Ha ottenuto un importante successo, ma non ha un intero Paese alle sue spalle. Ed è anche possibile che l’esito del voto per il rinnovo porti ad un chiarimento tra i due antagonisti: un uomo che ha ormai vinto la sua scommessa, affiancando nei libri di storia un padre della patria come David Ben-Gurion, e un presidente che deve giocare il tutto per tutto perché ha poche speranze di vedere continuare da altri il proprio lavoro.
E l’Europa? Quale sarà il suo rapporto con il nuovo governo uscito dalle elezioni del 17 marzo, al di là degli interrogativi sulle future mosse del premier e sulle eventuali contraddizioni tra le promesse e la realtà? Per il momento prevale la prudenza. Non è forse un caso che la dichiarazione con cui l’Alto Rappresentante per la politica estera Federica Mogherini si è congratulata ieri con Netanyahu non contenga un riferimento esplicito allo scenario dei due Stati (al contrario di quanto è avvenuto all’Onu) ma soltanto ad una «soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese nell’interesse di entrambi i popoli». Nel testo di ricordano anche, significativamente, le «molte minacce» esistenti in tutto il Medio Oriente.
Questo non vuol dire che l’Unione Europea possa rinunciare alla prospettiva della nascita di un’entità statale palestinese. E non vogliamo sostenere che debba farlo. Ma sarà sicuramente più giusto, nel prossimo futuro, tenere conto dei timori che sono emersi con la vittoria di Netanyahu. L’Europa ha sempre ricordato le legittime esigenze di sicurezza di Israele senza però comprendere fino in fondo, poi, le logiche conseguenze di questa affermazione in uno scenario nel quale la sfida del terrorismo islamico è divenuta ogni giorno più temibile. Certo, anche Israele non dovrà pensare di poter andare avanti da solo. Lo scrittore Edgar Keret ha raccontato che la moglie voleva affidargli un bigliettino da consegnare al primo ministro durante un viaggio: «Signor Netanyahu, la prego di fare tutto quello che è in suo potere per la pace, nel bene dei nostri figli». Il biglietto rimase a casa. Forse è stato un errore.