IL MODELLO TEDESCO NON È PIÙ SINONIMO DI STABILITÀ POLITICA.

 

Il risultato delle elezioni tedesche di domenica, che hanno visto la robusta avanzata dei nazional-populisti di «Alternative für Deutschland» e il calo altrettanto deciso di Socialdemocratici e Cristiano-democratici, è già di per sé un fatto inquietante per motivi facili da intuire. Lo diventa ancor più se consideriamo il fenomeno in una prospettiva sistemica: non come incidente di percorso, ma come messa in discussione di un modello istituzionale ed elettorale tendenzialmente, anche se imperfettamente, bipartitico, basato su due forze politiche maggiori, in grado di alternarsi al governo, per lo più in alleanza con un partito minore. Un sistema considerato dai più esempio di equilibrio e fattore di stabilità per la massima potenza continentale e per l’Europa intera. Quel modello, in realtà, era entrato in crisi da almeno un decennio: da quando cioè, nel 2007, si costituì un nuovo partito di sinistrasinistra, Die Linke, nato dalla confluenza di socialisti dissidenti ed ex comunisti della Ddr, che da allora poté contare su una inattaccabile base di consensi, oscillante attorno al 10% dell’elettorato. Si capì presto che quei voti, in gran parte sottratti alla Spd e rigorosamente tenuti in frigorifero, avrebbero a lungo impedito al maggior partito della sinistra di concorrere seriamente al primato. Il sistema perdeva così la sua tendenza bipolare. L’alternativa era fra un governo cristiano-democratico appoggiato all’occorrenza da un partito minore e un esecutivo di grande coalizione con la partecipazione di entrambi i grandi partiti: formula già sperimentata in Germania fra il 1966 e il 1969, nella stagione delle rivolte studentesche, e poi col primo e col terzo governo Merkel. La grande coalizione, in Germania come altrove, può essere, e spesso è stata, una soluzione buona per affrontare le emergenze, o addirittura una via obbligata in mancanza di alternative parlamentari praticabili. Ma, se si protrae molto a lungo, se diventa la regola anziché l’eccezione, finisce con l’irrigidire il sistema, col togliere respiro alla dialettica democratica. Logora le forze politiche che se ne assumono l’onere, in particolare quelle di sinistra che promettono di più agli elettori. Quel che è peggio, favoriscono alla lunga i partiti antisistema – proprio quelli di cui si vuol contenere l’espansione – lasciando loro il monopolio della protesta e i vantaggi di un’opposizione irresponsabile. Per questo il secco rifiuto opposto da Martin Schulz, leader sconfitto della Spd, all’ipotesi di una nuova Grosse Koalition è più che comprensibile. Ma, se mantenuto, lascerebbe aperto il problema del governo, costringendo Angela Merkel a una difficile trattativa sul filo dei numeri, con due possibili partner – Verdi e Liberali – fra loro difficilmente compatibili. Non è il caso, naturalmente, di evocare gli scenari drammatici del tramonto della Repubblica di Weimar, quando le forze costituzionali non riuscivano a esprimere una maggioranza nemmeno unendosi tutte assieme. Altra è la situazione economica, altro il contesto internazionale, di altra tempra e consistenza le schiere dei nemici della democrazia (da non confondersi con la massa indistinta degli spaventati dalla globalizzazione e dalle migrazioni). Uno sguardo pessimistico alla situazione politica della Germania farebbe piuttosto pensare all’Italia di oggi, alle sue maggioranze introvabili, ai suoi populismi assortiti (e assai più forti che nella Repubblica federale), alle sue coalizioni sempre in bilico, alle sue sinistre-sinistre impegnate nella difesa del loro territorio. Certo, sarebbe un amaro paradosso se noi italiani, dopo aver invano vagheggiato e inseguito un «modello tedesco» che in realtà non esisteva più, ci trovassimo a esportare, nostro malgrado, il non-modello di una confusa e interminabile transizione.
La Stampa
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