Mentre stentano a decollare le misure di ricollocamento per i licenziati da Almaviva a Pomigliano aumentano i casi in cui si applica il reintegro
ROSARIA AMATO
ROMA.
I 155 di Almaviva Contact reintegrati giovedì. I reintegrati della Natuzzi di giugno. La sindacalista di Firenze licenziata da Publiambiente nel 2014 e reintegratata a marzo. I licenziati della Fiat di Pomigliano reintegrati dalla corte d’appello di Napoli un anno fa. C’è aria di articolo 18. Anzi, per qualcuno la norma che garantisce il reintegro del lavoratore licenziato ingiustamente non è mai morta: la società “Qualità&Servizi”, partecipata pubblica dei Comuni di Sesto Fiorentino, Campi Bisenzio e Signa incaricata di gestire i servizi mensa, l’ha inserita spontaneamente nei contratti dei nuovi addetti, ai quali dunque non si applica il nuovo contratto a tutele crescenti del Jobs Act. La proposta di Mdp e della Sinistra Italiana di reintroduzione integrale dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, falcidiato da diverse leggi negli ultimi anni e abolito dal Jobs Act, in discussione alla Commissione Lavoro, e dal 20 in Aula a Montecitorio, interpreta un bisogno che viene avvertito con forza, non solo dai lavoratori e dai sindacati: persino alcuni giudici se ne stanno facendo carico.
«È la vecchia storia della flexsecurity – commenta Lorenzo Fassina, responsabile dell’ufficio giuridico della Cgil – abbiamo voluto rincorrere modelli di altri Paesi con un mercato del lavoro molto diverso dal nostro, con il risultato che il lavoratore non ha più la garanzia del posto di lavoro, ma neanche adeguate politiche attive di supporto che gli permettano di trovarne un altro». «Il fatto è che in Italia si è proceduto alla rottamazione delle vecchie tutele senza prevederne delle nuove, non c’è ancora nel nostro Paese la capacità di mettere in piedi una rete minima di protezione che accompagni chi perde il proprio lavoro, mettendolo in condizione di ottenerne un altro », dice Michele Tiraboschi, professore di diritto del Lavoro all’Università di Modena e di Reggio Emilia. L’idea era in effetti di fare proprio questo, attraverso la creazione dell’Anpal, la nuova agenzia di promozione e attuazione delle politiche attive del lavoro. Ma qualcosa non ha funzionato: il caso Almaviva Contact è emblematico in questo senso. I lavoratori licenziati nel dicembre dell’anno scorso hanno accettato di buon grado l’offerta dell’assegno di ricollocazione con una percentuale di oltre l’80%. Un successo se si confronta alla sperimentazione ordinaria dell’assegno, dove su 28.000 lavoratori coinvolti, appena il 10% ha accettato la proposta. Ma è passato quasi un anno ormai dal licenziamento, e i primi (e finora unici) 155 ricollocati sono i lavoratori che si sono rivolti al giudice, e che hanno ottenuto una sentenza favorevole (in precedenza c’erano state altre cause di impugnazione dei licenziamenti, ma il giudice aveva invece dato ragione all’azienda). Sul fronte politiche attive, invece, nulla. Un giudizio ingeneroso, osserva Maurizio Del Conte, presidente dell’Anpal: «C’è stato il massimo impegno per ricollocare questi lavoratori. Non è facile, molti di loro hanno solo il diploma di terza media, e sono vicini ai 50 anni. Ma stiamo facendo molti colloqui, in particolare presso il centro per l’impiego di Cinecittà. E 120 di loro potrebbero presto essere assunti da Comdata ». Comdata conferma, ma solo in parte: parla di 60 lavoratori. E comunque Comdata è un call center, e se assumerà lo farà sulla base degli impegni assunti in occasione dell’assegnazione di un’importante commessa: qual è il ruolo giocato in questo caso dalle politiche attive? «Io sono fiducioso sul fatto che il lavoro che stiamo facendo tornerà utile ai lavoratori, – replica Del Conte – anche a quelli che hanno vinto la causa, perché non credo che tutti rivorranno il loro posto: sono sicuro che molti, dal momento che la sede di Almaviva a Roma è chiusa, non accetteranno il ricollocamento e chiederanno invece il risarcimento e le 15 mensilità. Serve del tempo, noi siamo partiti davvero solo all’inizio di quest’anno. Inoltre il referendum dell’anno scorso ci ha impedito di operare con sedi locali: i centri per l’impiego sono rimasti in capo alle Regioni, noi abbiamo solo il coordinamento». Ed è questo il punto, dice Tiraboschi: «L’Anpal è una struttura elefantiaca, un gigante dai piedi di argilla. Che le politiche attive fatte così non avrebbero funzionato si era già capito con la Garanzia Giovani: molti tirocinii, a spese dei fondi Ue, e pochissimo lavoro. Non mi meraviglio che i lavoratori affidino la tutela dei loro diritti a quel che rimane dell’art.18. Sulle politiche attive si sono fatti molti più convegni dei pochissimi contratti firmati finora grazie all’assegno di ricollocazione. E in quest’ottica non ha molto senso estendere l’assegno di ricollocazione ai cassintegrati: non vedo perché dovrebbero rinunciare a un lavoro che ancora hanno in cambio di una prospettiva estremamente incerta ». Quel che rimane dell’art.18 però è troppo poco, osserva Fassina: nonostante ci siano ancora sentenze di reintegro, favorevoli al lavoratore, sono sempre meno quelli che decidono di andare in giudizio. «I costi a carico del lavoratore – dice – sono aumentati. I tempi per il ricorso ormai sono strettissimi, un tempo c’erano cinque anni dal licenziamento per decidere».