Il lavacro dei filosofi

Dai bagni poco epici secondo Omero all’intellettuale troppo pulito di Sartre
di Federico Condello
Dove fu fatto fuori Agamennone? In un nobile « lavacro » , durante una nobile « abluzione » ? O in una volgare «vasca», durante un volgare «bagno » ? Sul dettaglio si azzuffarono a mezzo stampa, una quarantina d’anni fa, un impertinente traduttore di Eschilo, Edoardo Sanguineti, e un grecista insigne, Benedetto Marzullo. Aveva ragione Sanguineti, indiscutibilmente: il « capo d’eroi » Agamennone morì ammazzato in una « vasca da bagno » . Eschilo, nel dirlo, è semplice e crudo. « E io » — commentava Sanguineti — «non ci posso porre rimedio, ancorché dolgami molto».
I bagni, i segreti e le segrete della casa, le cure che richiedono e la cura di sé che sollecitano, non sono materia di canto epico, né d’altra significativa testimonianza, lungo i primi secoli della letteratura occidentale. Sono eccezioni, e spesso grame, come nel caso di Agamennone. Omero ha una sola e onnicomprensiva parola per dire il chiuso della casa: i mychoì, i «recessi», come si suole rendere in medio traduttese classico. È la stessa parola che designa gli abissi della terra o del mare: profondità irraggiungibili, intimità remote; occulte camere su cui la telecamera omerica — pur con il suo perpetuo «primo piano », come lo chiamava Auerbach — si arresta. Da un certo punto in poi, nelle case degli eroi ci sono solo imprecisati mychoì, e nessuno può entrare. La vera vita, la vita degna dell’epos, avviene fuori.
In quei «recessi» abitano le donne, che per gli eroi preparano a volte bagni e vasche da bagno, come fa Andromaca per Ettore, ignara che Achille l’avesse ammazzato «dai lavacri assai lungi», traduceva Monti: cioè lontano dal bagno. Intimità del corpo e intimità della casa sono concessi ai grandi uomini dell’epos solo per brevi momenti, se tornano dalla battaglia, o se giungono in casa altrui (di bagni ospitali è piena l’Odissea), o se muoiono. Gli eroi, in effetti, si lavano soprattutto da cadaveri. E se muoiono in un bagno, come Agamennone, l’umiliazione è somma.
Né si pensi che certe faccende domestiche si attaglino davvero alle eroine. Sì, è vero, Nausicaa lava e stende i panni da sé: panni che, per una celebre gaffe di Omero — è l’inevitabile automatismo delle formule epiche — sono « splendenti » d’ufficio, ben prima di finire a mollo; ma quella di Nausicaa è una scena fiabesca. È vero che in bagno cogliamo anche Penelope, o la dea Afrodite: ma dee o regine hanno sempre intorno ancelle industriose, che della pulizia personale o domestica si occupano per loro. Il citato bagno per Ettore, del resto, non lo prepara Andromaca in persona, ma le sue schiave. E anche in un panorama più dimesso, come è quello della Satira sulle donne di Semonide, immortalata in lingua italiana da Leopardi, le cura domestiche sono dette « opere servili » : se il tipo della “ donna- cavalla”, immagine della superbia, è biasimata perché non libera la casa dall’immondizia, il contesto mostra bene che da una moglie ideale ci si aspetta che sovrintenda a tali attività, più che compierle personalmente. L’intimità un po’ sordida della vita domestica, per l’upper class come per la middle class antica, è cosa da servi.
In quanto tali, le cure quotidiane della casa sono normalmente espunte dalle testimonianze antiche, come espunte sono voci e vite degli schiavi, che realisticamente immaginiamo atroci. Squarci d’intimità domestica, scene di quotidiana pulizia o sporcizia, certo non mancano, ma sono rarità, confinate al registro della commedia. Come nella descrizione che il Pluto di Aristofane dedica all’igiene media di un medio ateniese: « vesciche ai bagni pubblici » , «zecche, zanzare e pulci / che vengono a svegliarti», «uno straccio di stoffa per soprabito, per letto un pagliericcio, stracolmo di pidocchi » . Ogni tanto qualche idolatra della classicità magnifica l’igiene degli antichi, elogia i bagni pubblici e i ginnasi di Atene, le terme o gli acquedotti di Roma. Sarà. Certo non gli auguriamo di trovarsi a tavola Ulisse, o Penelope a letto. La citata donna- cavallo si lava due volte al giorno, e ciò è indicato da Semonide come iperbolica raffinatezza.
Serve un epocale ripiegamento perché certe aree della vita umana — le case, i luoghi riposti, deputati al souci de soi — diventino, almeno per via metaforica, oggetto privilegiato di pensiero. Chi meglio ha tematizzato questo traumatico ripiegamento è il Michel Foucault della Cura di sé e di tutta la Storia della sessualità. Egli ha ben descritto l’introversione ossessiva che conquista le élites dell’età post-classica, divenendo ideale e regola di vita. Non che questo ci apra le intime stanze di pensatori e intellettuali, che restano per lo più escluse alla vista. Quel che accade è molto più profondo: è l’intimità stessa dell’uomo a diventare oggetto di maniacale attenzione. Le parole che furono dell’amministrazione e della politica si applicano all’individuo, a partire dalla socratica “cura ( epimèleia) di sé”. L’autosegregazione si fa norma di retto vivere, e anche un imperatore come Marco Aurelio predicherà « l’anacoresi in se stessi » , purché l’anima sia « tenuta in ordine » . Nascono una dietetica e un’igienistica dell’anima, e le metafore della purificazione e della pulizia, come pratiche da applicarsi non ai recessi della casa, ma a quelli della psiche, diventano pervasive. Fra Socrate e Seneca, fra età ellenistica e imperiale, nascono gli slogan di cui oggi cogliamo una deformata eco nelle esortazioni euforiche di tanti intrattenitori ben accasati: “riscopriamo noi stessi”, “prendiamoci cura di noi”. Sono il vindica te tibi e il secum morari di Seneca ridotti a vacuo ritornello, perché i pensatori antichi che hanno elaborato quegli slogan erano ben consapevoli di proporre idee d’élite alle élites, non ricette buone per tutte le cucine, anche per quelle in cui non lavoravano squadre di servi spazzini ( scoparii) deputati a raccattare i rifiuti da terra. Solo lì ci si poteva concedere il lusso di praticare l’igiene della psiche, di purificare i recessi dell’anima.
Uno degli ultimi pensatori classici che visse e affrontò senza infingimenti il dissidio fra cura di sé e cura della polis, obbligo dell’introspezione e obbligo dell’impegno pubblico, e cioè Platone, diede un nome folgorante a quello che egli giudicava il più pericoloso male di uno Stato: l’idìosis dei sentimenti e delle vite. Idìosis: potremmo renderlo con “ individualizzazione”, o “ privatizzazione”. Ma potremmo renderlo anche con “idiozia”, come l’etimo suggerisce.
Sartre ha reso popolare la metafora dell’intellettuale che “ si sporca le mani”. Significa che, di norma, ci aspettiamo che l’intellettuale abbia le mani molto pulite, come il superstizioso nevrotico ritratto dai Caratteri di Teofrasto; che sia appartato e metodico, come il Kant compulsivo impietosamente descritto dal suo maggiordomo; che sia solitario e autosufficiente, come quel Heidegger casalingo ritratto dal Thomas Bernhard di Antichi maestri: «Ho visto le fotografie che gli ha fatto una grande fotografa. Heidegger scende dal suo letto, si rimette a letto, dorme, si sveglia, mette i suoi mutandoni, infila i suoi pedalini, beve un sorso di mosto, intaglia il suo bastone, prende qualche cucchiaiata di minestra, taglia il pane ( fatto in casa), apre un libro ( fatto in casa), chiude un libro (fatto in casa), e così via. Roba da vomitare». Un intellettuale di tutt’altra pasta si sentì raccomandare così dalla sua premurosa madre: « non devi mai considerare cose secondarie la pulizia e l’ordine. Sii rigoroso e fa’ sì che la tua stanza sia lavata spesso. E lavati ogni settimana con spugna e sapone, caro Karl». Karl è Marx, naturalmente, consigliato da sua madre Henriette. Ma ci piace pensarlo disobbediente, e lercio come il Socrate delle Nuvole di Aristofane.
Sì, perché in questo sciagurato periodo possiamo ben rassegnarci all’idìosis e alla cura dell’intimità, in tutte le sue possibili accezioni; possiamo e dobbiamo accettare l’idea che «c’è un tempo per gli abbracci, e un tempo per astenersi dagli abbracci» (lo dice l’Ecclesiaste, prima di Conte); ma ricordiamoci che, a inoltrarsi e soffermarsi troppo nei recessi della casa, possono morire anche i re, come Agamennone insegna. E non gloriosamente. Figuriamoci gli altri.
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