Il governo debole della scienza

di Michele Ainis
D ei politici, a torto o a ragione, diffidiamo. Della scienza no, è la divinità di cui celebravamo la potenza. Almeno fino a ieri, prima che il virus ne mettesse a nudo gli insuccessi, i limiti, i ritardi. Prima d’assistere al concerto stonato dei virologi, dove ogni opinione s’infrange contro l’opinione contrastante. L’ultimo insulto alla dignità della scienza, tuttavia, viene ancora dalla bocca dei politici. Perché in questa crisi stanno usando le incertezze degli esperti come uno schermo, un paravento: per non decidere, o per decidere quello che gli pare.
Sta di fatto che ne sappiamo poco, poco davvero, dell’infezione che ha colpito il mondo. Dopo tre mesi, non conosciamo esattamente la sua fonte, se in un mercato o in un laboratorio di Wuhan. Restano ignoti i numeri reali del contagio (dieci volte in più del dato ufficiale?). La possibilità di recidiva per chi ne sia guarito. I tempi d’incubazione (14 giorni o invece il doppio?). Se il virus rimanga nell’aria in sospensione, e quanto a lungo, e in che percentuale. Se tema il caldo, se l’estate ci aiuterà a sconfiggerlo.
Quale sia la distanza sociale da osservare (i numeri ballano, da un metro fino a 8). Se gli animali domestici rappresentino una fonte di contagio. Perché la mortalità risparmi le donne. E manca fin qui un vaccino, però manca altresì un test sierologico affidabile, e manca una terapia sostitutiva.
Sarà per questo, per la quantità di dubbi che ci ronzano in testa, che le nostre istituzioni hanno chiamato al loro capezzale tutti i dubbiosi. Da qui la pletora di commissioni, comitati, consulenti. Sono state contate 15 task force, con un esercito di 448 generali; ma probabilmente la stima è viziata per difetto. C’è un Comitato tecnico-scientifico al servizio della Protezione civile, con una composizione a fisarmonica (aveva 7 membri all’atto della sua istituzione, poi una ventina, adesso 12). C’è il superconsulente (Ricciardi) designato dal ministro della Salute. Ci sono le commissioni settoriali, come quella che assiste la ministra per l’Innovazione nella lotta digitale al virus (76 esperti, crepi l’avarizia). E ci sono infine le task force anti Covid nominate dai governatori regionali, a partire dalla Lombardia (27 componenti fra virologi, epidemiologi, pneumologi, farmacologi, professorologi della più varia risma).
Ne viene fuori una doppia lezione: sul ruolo della politica, sul ruolo della scienza. In questa giostra di voci (e di norme, d’editti, di proclami), gli italiani hanno capito solo che è meglio stare a casa, lavandosi le mani a ogni sospiro.
Non va bene, non è così che ci sentiamo più protetti. Ma non va bene neppure il gioco dello scaricabarile su cui s’esercita la politica italiana, fuggendo le proprie responsabilità. Nell’ultima informativa al Senato del presidente Conte, il Comitato tecnico-scientifico è stato citato cinque volte. In Lombardia Fontana vuole riaprire, ma aspetta il sì degli scienziati. In Puglia Emiliano vuol tenere tutto chiuso, però con il no degli scienziati. Troppo comodo, e anche un po’ vigliacco. Perché la discordia della comunità scientifica permette al politico di scegliere fior da fiore. E perché se lui azzecca la decisione, poi se ne prenderà ogni merito; altrimenti la colpa sarà tutta degli esperti.
Anche la scienza, tuttavia, ha urgente bisogno di un bagno d’umiltà. Dopotutto ha reso possibile lo spreco delle risorse naturali, l’inquinamento, il surriscaldamento globale. Forse questa stessa pandemia, come denuncia Trump. Eppure, nel clima culturale che segna il nostro tempo, il suo primato è indiscutibile; perfino la Consulta, nella sentenza sul «multitrattamento Di Bella» (n. 185 del 1998), impegnò il legislatore a sottomettersi alle evidenze sperimentali. Che però, sempre più spesso, sono ben poco evidenti: nel 2016 un saggio apparso su Nature ha rivelato che oltre il 70% delle ricerche scientifiche fallisce i test di riproducibilità. Sicché teniamone conto, ma ascoltiamo altresì il parere degli economisti, dei sociologi, dei giuristi, anche degli psicologi, in questi giorni di clausura. D’altronde ce lo insegnò già Karl Popper: «Se dovessimo contare sull’imparzialità degli scienziati» diceva «la scienza sarebbe del tutto impossibile».
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