Il gioco del cerino

di Claudio Tito
I l fallimento sovranista sta ormai assumendo il carattere della pochade . Un governo finito, una maggioranza a pezzi sta sottoponendo il Paese ad un’ultima umiliazione: quella di giocare su chi debba assumersi la responsabilità della crisi di governo. Si alambicca con il gioco del cerino. Come se avesse un senso, come se il disastro di questi 14 mesi possa ricadere solo su uno dei due soci di questa coalizione.
Possono continuare a esercitarsi nella pratica dello scaricabarile, ma nulla – nemmeno gli insulti reciproci – potrà occultare il bilancio annuale dell’esecutivo.
La squadra gialloverde sta infatti svelando tutti i contorni tragici del populismo. Che quando è costretto a fare i conti con la realtà non può che mostrare il suo saldo negativo.
 La sua natura – come dimostrano tutt i precedenti internazionali – spinge a lasciare detriti lungo la strada percorsa e non costruzioni.
Per di più, la classe dirigente che lo ha animato, banalmente ha confermato di non essere all’altezza. Ha confuso aspirazioni con realizzazioni, ha sovrapposto l’ignoranza alla preparazione. Ossessionata dal tentativo di stordire i cittadini con qualche tweet. Ma non di persuaderli con soluzioni di medio-lungo periodo.
La politica, però, non può ridursi solo e semplicemente alla rincorsa degli istinti viscerali del Paese. Il progetto di un partito o di un esecutivo diventa asfittico quando si chiude dentro i confini asfittici di un “contratto”. Quello è un negozio giuridico utile a comprare un immobile dal notaio o a scambiare quale interesse personale.
Amministrare un Paese, guidare 60 milioni di persone è impossibile se non si usa lo strumento della persuasione e della visione poliennale.
La costante accondiscendenza nei confronti di tutte le istanze, anche quelle ingiuste e violente, trasforma invece le forze politiche in meri strumenti di potere e non di gestione dei fenomeni reali. Converte i leader in raccoglitori del consenso a breve termine e a uso privato.
Proprio come è accaduto alla Lega e al M5S. La conseguenza è aver lasciato sullo sfondo il governo e il Paese. Il merito, se così si può dire, è aver reso evidente l’impossibilità di far convivere due soggetti uniti solo dal potere e divisi su tutto il resto.
Il risultato è dunque lo spettacolo cui stiamo assistendo in questi giorni. Una farsa. Davanti alla quale in pochi rideranno. Gli effetti, anzi, stanno già ricadendo sugli italiani. Basta leggere l’andamento dei nostri titoli di Stato, lo spread si sta di nuovo impennando. La spesa per interessi non è un’ombra vaga che oscura qualche banchiere o qualche ricco detentore di bot. Azzanna chi ha più bisogno: colpisce chi necessita della sanità o della scuola pubblica o chi si affida agli investimenti statali per trovare lavoro. I mercati finanziari sanno leggere e sanno scegliere, a differenza di molti dei nostri governanti.
Hanno capito che in questo quadro lo spazio per negoziare con l’Europa si sta riducendo. Intuiscono che la fondamentale legge di Bilancio potrebbe per la prima volta non essere approvata consegnandoci alla feroce incertezza dell’esercizio provvisorio. Si accorgono che una crisi di governo in questo contesto e con queste modalità è provocata da un gruppo dirigenziale privo di senso delle Istituzioni e quindi irresponsabile. Avvertono che la debolezza di chi siede nei ministeri è la debolezza del Paese. Una fragilità acuita dalla circostanza che questa sarà con ogni probabilità la legislatura più corta della storia repubblicana, nemmeno due anni.
L’insano ircocervo gialloverde sta soprattutto disegnando per il Paese un futuro più incerto. E la situazione può solo peggiorare se, abbandonando ogni buon senso, si dovessero adottare soluzioni ancora più drammatiche o pasticciate: alimentando la speranza da Prima Repubblica di qualche bis.
Insieme alla maggioranza, del resto, sta collassando un sistema. Basta osservare i comportamenti dei grillini pronti alle bassezze da retrobottega della politica pur di non perdere l’ultimo autobus che li riporti al potere. Un Movimento che non riesce a far tesoro delle sue inadeguatezze, attaccato costantemente a qualche piccolo slogan, incapace di uscire dalle psicofantasie fondative e sistematicamente – e forse in maniera colpevolmente inconsapevole – dirottato a destra dal suo alleato. Salvini ha condotto i pentastellati proprio nel “suo” luogo della politica, dove li ha resi superflui. Li ha fatti evolvere in un inutile doppione del nazional-leghismo. Ha assestato qualche colpo alla loro approssimazione programmatica e soprattutto – nel silenzio M5S – ne ha dati tanti alla qualità della nostra democrazia come ha testimoniato anche negli ultimi giorni il Presidente della Repubblica Mattarella criticando aspramente la cosiddetta legge “Sicurezza bis”. Un percorso che certo non poteva durare a lungo perché già prevedeva la tappa finale: la sconfitta di uno degli “ex soci”.
Se le elezioni ci saranno, rappresenteranno soprattutto il test per capire se siano davvero entrati nel cuore del Paese gli anticorpi contro la deriva cullata dal capo della Lega. Contro le aspettative di chi è accusato di aver preso i soldi dalla Russia di Putin e può ridurre l’Italia ad una nazione a libertà vigilata. Nella speranza che l’unico precedente di voto politico in autunno negli ultimi 100 anni sia solo una brutta coincidenza: 16 novembre 1919.
La prima volta che i Fasci hanno partecipato ad una competizione elettorale.
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