di Ezio Mauro
Dopo che sembrava bandito dal secolo nuovo, come se non riuscisse ad attraversarne la soglia, l’Est ritorna a segnare la nostra vita, contendendoci lo spazio e il tempo in una disputa infinita che si rinnova. Nell’età dell’immateriale e del globale, quando tutto è ubiquo e contemporaneo, l’Occidente riscopre all’improvviso la sua frontiera orientale e la vede armata, minacciosa, ostile.
Fondato per tutta l’epoca della Guerra fredda sulla pietra e sul filo spinato del Muro di Berlino, il concetto geopolitico di Est pareva incapace di sopravvivere alla caduta di quella barriera armata e alla distruzione di quel punto simbolico da cui cominciava la divisione del mondo. Devitalizzato politicamente, svuotato di una soggettività sovrana, neutralizzato nella sua dimensione imperiale, ciò che restava della raffigurazione storica dell’Est veniva restituito alla funzione tecnica di punto cardinale, orizzonte dove sorge la luce del sole, per illuminare avanzando l’Occidente egemone: il cui sistema di credenze — la democrazia — aveva infine vinto, sconfiggendo i due totalitarismi nati nel cuore dell’Europa.
Storia e geografia si sono invece ribellate insieme, rivendicando un ruolo per l’Est e riportandolo al centro della scena. E l’incarnazione dell’altra parte del mondo ancora una volta è la Russia, il “nemico ereditario” dell’Europa di cui è parte, il principio antagonista che porta in sé la sfida perpetua di una maestà concorrente, il pretendente imperiale che riemerge. Dunque non era la sovrastruttura bolscevica e leninista il fondamento dell’alterità di Mosca rispetto all’Ovest, ma l’autoscienza della Russia affondata nei secoli, il suo carattere nazionale perpetuamente dilatato oltre i suoi confini, umiliato e renitente quando il nuovo disegno del mondo lo spingeva a rientrarci. Sembrava impossibile che dopo il collasso del gigante sovietico il Cremlino riuscisse in così breve tempo a ricostruire una tecnica del potere capace di riconquistare il rango perduto. E soprattutto a riarmare una struttura ideologica in grado di concepire e legittimare una pretesa di autorità sovranazionale, anche sotto forma di arbitrio e sopruso.
Si può comprendere tutto questo solo se si accetta l’idea che Putin ha riportato la Russia a incarnare nuovamente la dimensione alternativa dell’Est, indipendentemente dal suo mandato politico e dalla sua dimensione territoriale. È uno spirito, un’ambizione, anzi un’obiezione concorrente all’Occidente, a cui la Russia rilancia la sfida a nome dell’Est. Come all’inizio della Guerra fredda, dove la geografia diventava politica, anzi si tramutava in ideologia, tanto che quando Jurij Gagarin il 12 aprile 1961 portò la supremazia sovietica nello spazio volando come primo uomo nel cosmo, il Cremlino lanciò un segnale preciso al mondo battezzando la navicella che aveva compiuto un’orbita terrestre con il nome “Vostok”: Oriente.
Non c’è dunque soltanto un’ossessione difensiva di sicurezza nella pretesa di Putin di ricreare intorno alla Russia un’area d’influenza che tenga a distanza i missili e gli uomini della Nato. C’è l’inseguimento della dimensione imperiale su cui in realtà si regge il patto autoritario tra ogni Capo del Cremlino e il suo popolo, perennemente orfano e pretendente di quell’aura di potere sovrano allargato: o per estensione territoriale, o per egemonia politica, o per preminenza culturale, o addirittura per destino della storia. Quel mandato che diventa missione assegnata dalla Russia a se stessa, rispondendo nel caso dell’Ucraina a una vocazione naturale e a un vincolo metafisico che Putin non ha avuto esitazione a definire “spirituale”.
Tocca così a Putin, dopo 21 anni di esercizio del potere, cercare la soluzione alla «più grande tragedia geopolitica del ventesimo secolo», come ha definito la dissoluzione dell’Urss. Quell’impero, costruito nel fuoco della rivoluzione e consolidato nel ferro della guerra, non si può certo ricostruire nell’epoca attuale. Ma si può richiamare la sua maestà e recuperare la sua funzione, proiettando fino ad oggi l’orgoglio della superpotenza, prima che scoprisse di avere i piedi d’argilla. Quest’opera, che tecnicamente è una vera e propria restaurazione, negli ultimi anni è stata avviata fuori dalla dimensione spaziale e territoriale, cercando nell’anima della Russia le ragioni di una diversità insopprimibile e le energie eterne per rilanciare la sfida, nel rifiuto dell’antica maledizione per cui i popoli slavi hanno sulla terra un posto più ampio che nella storia. Poi è arrivato il momento della pretesa territoriale e della messa in discussione dei confini. Tre anni fa era stato proprio Putin a denunciare la tabula rasa di regole condivise e accettate dopo il periodo della Guerra fredda, quando «c’erano almeno alcuni criteri che tutti i membri della comunità internazionale seguivano o tentavano di seguire». Oggi è lui che approfitta di quel vuoto e della mancanza di un disegno del mondo condiviso, anche tra avversari: se manca un canone di controllo dell’ordine mondiale, allora tutto può tornare in revoca, ogni punto è mobile e provvisorio, compresi i confini, e l’unica egemonia è quella della forza.
Un ridisegno del mondo non può tuttavia avvenire soltanto per mano degli eserciti. Il nuovo ordine ha bisogno di una nuova gerarchia di valori. E Putin ha cominciato nel 2019 a corrodere il principio democratico, unico metro di misura superstite dopo la fine della distorsione ideologica del Novecento, sostenendo che «la cosiddetta idea liberale è obsoleta, è entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione, ha esaurito il suo scopo. Per milioni di persone — ha aggiunto — i valori della tradizione sono più stabili e più importanti di questa concezione liberale che sta morendo». È un attacco alla democrazia e allo Stato di diritto denunciati come pure creazioni occidentali, respinti come principi universali. Ed è anche una rivendicazione di pari legittimità per la pratica autoritaria, una patente autoconcessa di libero dispotismo. L’Est trova qui il nuovo e ultimo fondamento della sua differenza che si fa alterità, ancora una volta: lo schema concettuale e morale con cui l’Occidente vincitore è entrato nel nuovo secolo viene ribaltato e rifiutato, i suoi dividendi politici non sono automatici ma illegittimi, la sua ragione storica è debole perché le società democratiche sono palesemente in crisi e il neo-autoritarismo è un’alternativa di semplificazione e di forza. La Russia dunque (con un’eco che arriva fino in Cina) parla ai nuovi sovrani delle democrature, ma anche ai despoti democratici dell’Europa di mezzo, respingendo per tutti la religione civile occidentale, trasformata in regole a Bruxelles. E negando che il bene e il male, oggi — a partire dalla pressione russa sulla frontiera ucraina — si possano separare e misurare con i parametri dell’Ovest.
Poi sarà la realpolitik del momento a decidere l’esito di questa pressione militare e politica: la guerra o un accordo per un nuovo sistema di garanzie. Ma quel che conta, oggi, è che un confine è già stato spostato, culturale, concettuale, morale nel senso politico del termine, approfittando della dispersione identitaria dell’Occidente davanti all’Est che ritorna. Tutto il resto Putin lo giocherà sul crinale sottile tra il cinismo e l’azzardo. D’altra parte ha ricordato una volta l’insegnamento di un proverbio russo: «Chi non si prende rischi, non beve champagne».