di Paolo Valentino
«Dove fanno un deserto, lo chiamano pace». La saggezza di Tacito forse non fotografa esattamente la situazione francese, soprattutto in vista del duello senza esclusione di colpi che si prefigura tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Ma il concetto del deserto si applica bene al paesaggio politico transalpino che emerge dal primo turno delle elezioni presidenziali.
Per fare un paragone renano, è come se in Germania in un solo giorno fossero sparite insieme la Cdu e la Spd, i popolari e i socialdemocratici. Gollisti e socialisti, le due forze tradizionali che pure sono ancora significative a livello comunale, sono stati spazzati via dal palcoscenico nazionale. Inoltre, più di metà dell’elettorato ha votato per movimenti (non partiti) antisistema, dividendosi tra la destra di Le Pen, l’estrema destra di Eric Zemmour e la sinistra populista di Jean-Luc Mélenchon.
Certo, si potrebbe obiettare che Macron, col suo quasi 28% rappresenti il nuovo centro moderato. Ma il punto è che, al momento, intorno a lui c’è un paesaggio di macerie. I serbatoi del fronte repubblicano sembrano esauriti. Mentre il suo «La Republique en marche» non è un partito ma un comitato elettorale per la sua rielezione e appare una costruzione artificiale, senza radici nella Francia profonda.
Quella che si gioca nelle prossime due settimane è quindi una partita molto pericolosa, che Macron può e deve vincere per il bene della Francia e dell’Europa. Ma che in ogni caso pone in modo drammatico la questione della crisi dei partiti tradizionali. Che non è un problema solo francese e riguarda altri Paesi europei, fra i quali l’Italia. Ma che in Francia tocca il punto più profondo e rovescia su Emmanuel Macron una doppia responsabilità: quella di essere rieletto e quella non meno importante, ma finora fallita, di dare al Paese una nuova e stabile struttura politica, sganciata dalla sua personalità. Altrimenti, il peggio sarà solo stato evitato per questa volta.