Il cuore stretto nelle strade di Pasolini.

IL RACCONTO
Ogni volta che esco dalla stazione della metropolitana di Santa Maria del Soccorso, nell’estrema periferia romana, per incamminarmi verso gli scorci grigi di via del Frantoio, dove l’altra notte, nei pressi del centro di accoglienza della Croce Rossa, è stato accoltellato un profugo eritreo, mi sento sempre stringere il cuore. E non saprei nemmeno bene spiegarne la ragione.
Quei ragazzini impegnati a giocare in una cecità istintiva nei giardini di via dell’Erpice, ad esempio, potrebbero essere figli miei: vorrei abbattere il cancello, entrare dentro, prenderli per mano e trascinarli via. Portarli in salvo dalla Tiburtina del sogno guasto, degli orizzonti blindati, della privazione affettiva, del mondo perso, del tempo sfregiato, dove sono cresciuto anch’io. Il panorama edilizio è completamente cambiato, ai miei tempi non c’erano tutti questi palazzi che adesso incombono sugli snodi stradali come squadroni di calcestruzzo, ma certe strafottenze sono rimaste le stesse. A pochi passi da qui, a Ponte Mammolo, Pasolini venne ad abitare insieme alla madre, nei primi anni Cinquanta: lui fece presto ad innamorarsi del regno zingaro di Pietralata. Ma adesso il Riccetto si chiama Mohamed. Caciotta è Omar.
Addio Pierpaolo! Oggi i ragazzi di vita arrivano dal Maghreb, dall’Africa nera, da periferie assai più scalcinate delle nostre, e molti di loro abitano al Centro del Venafro per minori non accompagnati, qualche centinaio di metri più avanti rispetto alla strada in cui sono avvenuti gli scontri fra residenti e immigrati, sui quali gli inquirenti ancora indagano. Arriveranno le conclusioni giuridiche, insieme a qualche verdetto. Ma questo tema non lo può svolgere solo il giudice. La questione è più ampia e, come sappiamo, chiama in causa tutti noi. Fra Via Pescina e Via Arsoli i vecchi lotti popolari fronteggiano come fantasmi decrepiti le nuove villette addobbate con gli striscioni giallorossi, poco prima dei campi impolverati del Verde Rocca: da una parte la pellicola in bianco e nero del Paese che abbiamo visto in televisione, dall’altra il giocattolo in stile Bricofer dei nostri giorni. In fondo Bruno Cirino, nel “Diario di un maestro”, lo sceneggiato del 1973 di Vittorio De Seta, intercettando l’energia vitale dei vecchi borgatari, cercava di guarire la stessa ferita che oggi noi non riusciamo a tamponare. Anche in questo senso Roma resta il centro del mondo.
La Repubblica.