Palermo, 16 settembre 1970

Pomeriggio di caldo e scirocco alla Kalsa, percorro a piedi vie abbandonate, intralciate di immondizia e rottami, tra palazzi di un’aristocrazia estinta o in malora, con le assi alle finestre e i balconi marci sorretti da impalcature precarie. Quello che un tempo era scintillante, ora è scrostato. È la testimonianza infelice di un tempo glorioso ormai tramontato. Il quartiere è fatiscente, decadente, sta crollando. Panorama délabré. Tre giovani uomini appoggiati al muro mi stanno aspettando. Con le maniche di camicie tirate su fino ai gomiti, mostrano braccia muscolose, indossano occhiali scuri, non parlano. Si presentano con diminutivi: Nino, Mimmo e Manu. Mi conducono ad un’auto, una berlina FIAT 125; ce ne andiamo a farci un giro al porto, ci sediamo nel retro di un bar di scaricatori a bere birra gelata. Dopo la cassata di compleanno fattami avere da Max, ho una nuova sorpresa, e quest’ultima mi sciocca sul serio. Nino mi porta una borsa in cuoio. È la mia valigetta da lavoro custodita nel mio ufficio che ho mantenuto a Milano in zona Porta Romana. Ripeto: quella valigetta è chiusa dentro ad uno sgabuzzino nel mio piccolo ufficio milanese al quarto piano di un anonimo palazzo qualunque, la cui porta è blindata. Invece, magia, la mia borsa di lavoro compare sulle mie ginocchia in uno sporco stanzino di una bettola portuale a Palermo. Guardo sbigottito Nino, Mimmo e Manu, vorrei fare una faccia incazzata e cattiva, ma i tre se la ghignano e se ne fottono. Mi sento un pollo cretino alla mercé di volpi perfide. Questo è proprio un brutto tiro, significa che sono entrati nel mio ufficio, hanno curiosato, hanno preso la mia valigetta, e chissà che altro. Spero non abbiano aperto la cassaforte, dentro ci tengo tutto il mio archivio personale… L’Agenzia non si è scordata di me. Le nuove leve, agenti che non conosco, mi tengono d’occhio e usano gente della risma di questi tre qua… Nino, Mimmo e Manu, manovalanza reclutata nella mafia, con cui la CIA ha dal ’43 un rapporto di lavoro costituito da reciproci scambi e favori. Mafia e CIA, una longeva joint-venture di mutua assistenza e collaborazione attiva. Da guadagnarci ce n’è per tutti.

La serratura della mia borsa di cuoio è stata forzata. Dentro, ritrovo gli antichi attrezzi del mestiere, la Walther PPK e il pugnale Caimani 1918, che sono secoli che non uso, grazie a Dio. Mi toccherà rispolverarli oggi? Ad un mio tentativo di chiedere a questi tre gentiluomini chi s’è permesso di entrare nel mio ufficio e perché diamine mi hanno portato fin quaggiù la borsa, il gentiluomo Nino si porta il dito alla bocca, nell’eloquente gesto di fare silenzio. Muto devo restare. All’interno della valigetta trovo anche qualcosa di nuovo, una cartellina di carta azzurra, con dentro un sintetico dossier sul giornalista Mauro De Mauro. Il fascicolo è senza dubbio opera dell’Agenzia. La foto pinzata con una clip al fascicolo mostra una brutta faccia che non si può scordare, con varie cicatrici e dal naso orrendo, come se fosse stato spiaccicato da un camion in corsa. Leggo notizie sul tizio a cui dobbiamo fare la festa.

Mauro De Mauro, nato a Foggia il 6 settembre 1921, professione giornalista, impiegato presso il quotidiano L’Ora di Palermo. Da ragazzo è un giovane convinto sostenitore del fascismo e dopo il proclama di armistizio dell’8 settembre ’43 si arruola senza esitazione nella X MAS del principe Junio Valerio Borghese di cui è ammiratore fino a dopo la guerra tant’è che chiamerà la secondogenita Junia, in onore del suo vecchio comandante. Nella Roma occupata dai tedeschi svolge impieghi di pubblica sicurezza, con funzioni di collegamento con la questura, le SS, e alcuni reparti autonomi. Sotto le armi repubblicane, ha inizio per De Mauro la carriera da giornalista. Scrive per La Cambusa, la rivista ufficiale della X MAS, attività che gli permette di viaggiare per tutto il territorio dell’RSI. Finisce la guerra tra i reparti schierati a Trieste con il grado di sottotenente. I segni che porta in viso e il suo vistoso zoppicare sono le conseguenze di uno spaventoso incidente d’auto avvenuto a Verona nel primissimo dopoguerra. Per poco non ci rimette le penne. Arrestato nel ’45 dalle forze d’occupazione americane, taglia la corda dal campo di concentramento di Coltano nel ’46. Lo riacciuffano a Napoli dove si nascondeva sotto falsa identità assieme alla moglie Elda e le figlie Franca e Junia. Viene processato per una sua presunta complicità nella strage delle Fosse Ardeatine, da cui però ne esce pulito, prosciolto con formula piena perché non c’entrava nulla con quella storia. Con la famiglia se ne va a Palermo e inizia a scrivere per i quotidiani locali dimostrando da subito una bravura fuori dal comune. È un cronista d’assalto che prende di mira la mafia. Fuma come un turco, ed è un buon bevitore. Aneddoto buffo: durante la contestazione studentesca degenerata in scontri la sera della prima della stagione 1969 al Teatro Massimo, il giornalista è stato visto ubriaco fradicio in groppa ad uno dei due leoni in bronzo della scalinata brandendo una bottiglia di whisky tra sampietrini volanti e fumo di lacrimogeni. Ex-fascista, ribelle per natura, uomo libero dalla politica e dagli intrallazzi, non corruttibile, generoso, spavaldo cronista vivace: un giornalista singolare che lavora per un insolito giornale in una strana città. Nel ’70 il suo lavoro è dirottato alle pagine sportive. Però, nel luglio di quest’anno, gli arriva un importante incarico dal regista Francesco Rosi, che sta girando un film d’inchiesta sulla morte di Enrico Mattei. Rosi ha chiesto al giornalista di indagare sulle ultime ore del Gran Visir in Sicilia, per ricostruire l’ultimo giorno del presidente dell’ENI prima della sciagura di Bascapè. De Mauro accetta entusiasta anche perché il regista gli ha promesso un bel gruzzoletto a lavoro svolto, e comincia dunque a ficcare il naso. Scava e scava l’impiccione dalla brutta faccia d’elefante. Sono qua per questo, per conoscere cioè cosa Mauro De Mauro abbia scoperto sulla fine di Mattei.

Ultima ora di luce al porto, la musica di garriti dei gabbiani e delle sirene delle navi mi svuota la testa dai pensieri, guardo le barche arrivare e partire nel mare in calma piatta, con lo scirocco caldo, un vento quasi soffocante, che porta su Palermo una pellicola di sabbia rossa portata dal deserto d’Africa. È una sera indolente, incantatrice, che mi stordisce.

Il gentiluomo Mimmo mi sveglia dal torpore e mi dice che è arrivato il momento. In auto giriamo attorno alla sede storica de L’Ora in piazza Francesco Napoli, senza fermarci. Aspettiamo che il giornalista esca. Lo fa alle 20.40. Eccolo, è un uomo alto, sigaretta tenuta su un lato della bocca, si dirige verso la sua BMW blu scuro. Assieme a lui c’è un altro giovane. Nino dice che è un suo collega che spesso gli scrocca un passaggio a casa. Gli passiamo davanti mentre apre la portiera, lui non fa caso a noi, ma noi a lui sì, e la sua faccia sotto alla luce del lampione mi ricorda quella di un pugile che ne ha prese tante sul ring. Lo seguiamo, siamo belve dietro la preda da sbranare. La BMW del giornalista passa piazza San Francesco di Paola con la chiesa e il convento dell’Ordine dei Minimi, oltrepassa via Dante Alighieri, procede in via Sammartino, mette la freccia per girare a destra in via Giuseppe la Farina. Qui accosta. Scende il passeggero. La BMW blu riprende la marcia, De Mauro è rimasto solo. Fa una nuova tappa, parcheggia in doppia fila in via Pirandello, davanti alla vetrina del bar Nobel. Il giornalista scende, entra nel bar. Lo vedo al bancone, compra qualcosa, sigarette, una bottiglia di vino. Si ferma a chiacchierare con il barista. Siamo in mezzo alla strada, qualcuno spazientito preme il clacson dietro di noi, Manu ingrana la marcia e lasciamo il bar. Chiedo perché non lo aspettiamo. Nino mi dice che lo aspetteremo a casa. Loro sanno dove vive. Ci dirigiamo lesti superando arroganti le altre auto nel traffico della sera, alla destra abbiamo piazza Unità d’Italia, sulla sinistra i giardini di Villa Sperlinga, siamo nella zona residenziale. Qua vicino, in viale Lazio, s’è consumata l’anno scorso una sparatoria feroce tra mafiosi. Noi invece svoltiamo in viale delle Magnolie. Palazzi nuovi per la piccola borghesia, uno dei tanti quartieri recenti del capoluogo siciliano – la Palermo degli intrallazzi specula sfacciata nell’edilizia bulimica, fagocitando la vecchia città. Il numero civico 58 è il portone che conduce all’appartamento della famiglia De Mauro. Aspettiamo celati dalle tenebre in un angolo buio di strada. Movimento al portone: una coppia di ragazzi sta entrando. Nino bisbiglia che è la figlia Franca con il fidanzato. Si devono sposare a breve, i piccioncini. Subito dopo brillano i fari della BMW di De Mauro. La macchina accosta al marciapiede. Ora! 

Scendiamo in tre, il gentiluomo Manu rimane al volante della FIAT. Ci avviciniamo a passi svelti, la BMW spegne il motore. Il giornalista non ci nota subito perché è chino sul sedile del passeggero a raccogliere le sue cose. Nino apre di scatto la portiera lato guidatore. Sul volto tumefatto di De Mauro si disegna un’espressione prima di stupore, poi di paura, e quindi di angoscia vera. Vede che quell’uomo alla portiera non è solo, ma che siamo in tre. Sgrana gli occhi, brusco chiede chi siamo e che vogliamo.

«Dobbiamo parlare di cose urgenti».

Gli dice Nino.

L’altro non capisce, scende dall’auto, chiede ancora chi siamo, ma penso che stia già intuendo qualcosa. Percepisce di essere fottuto. Accenna due passi verso casa, Mimmo gli si para davanti.

«Dobbiamo solo parlare, non vuoi mica che lo facciamo qua con le tue figlie?»

Lo minaccia Nino e lo incalza. Impugna un revolver a canna corta che gli preme sulla pancia.

«Solo due chiacchiere, ti riportiamo a casa tra due ore, dai sali».

Mimmo apre la portiera del sedile posteriore della BMW e invita il giornalista a salirci sopra. Lui non si oppone, monta in auto. Io mi siedo a fianco di De Mauro, che mi lancia occhiate tra l’interrogativo e il terrorizzato. Sì, ha proprio una faccia che non si scorda, con quel naso a proboscide. Mimmo si siede al posto di guida, Nino fa il giro dell’auto per sedersi sull’altro sedile anteriore. Quando apre la portiera esclama l’ordine:

«Amuninni».

Partiamo in un singhiozzo, Mimmo gracchia la marcia, non sa guidare la BMW. Nino lo sgrida dicendogli che è un cugghiuni. A me ordina di tirare fuori la pistola e di badare che il nostro ospite non faccia una sciocchezza improvvisa come aprire la portiera e fuggire in strada. Eseguo, mostro al giornalista la canna tozza della Walther PPK. L’ospite guarda la pistola e poi me. Ha le cicatrici sulla fronte bagnate dalle gocce di sudore. Appena svoltiamo due lampi sfarfallano alle nostre spalle: è il segnale della FIAT berlina guidata da Manu, che ci segue. Nel tragitto Mauro De Mauro si agita. Cerca di farci parlare, per sapere chi siamo e cosa vogliamo da lui. Ma in cuor suo lo sa già, chiede solo per conferma, e infatti ad un certo punto domanda:

«È per Mattei vero?»

Ed è una domanda che nell’abitacolo della BMW suona come una dolorosa rassegnazione di chi ha capito di trovarsi di fronte ad un plotone di esecuzione. Per un momento si fa prendere da un inizio di panico, urla di fermare la macchina e fa per poggiare la mano sulla maniglia della portiera. Gli punto la PPK sul naso a proboscide. Si calma, gli si umidiscono gli occhi, scuote la testa, sa di essere nella merda fino al collo. Nino tenta inutilmente di tranquillizzarlo, con una cantilena dialettale che gli dice che vogliamo solo parlare, un chiarimento e poi ce ne andiamo tutti a casa. Torniamo verso il centro di Palermo, percorriamo un pezzettino di via Dante e giriamo in via Pietro d’Asaro per abbandonare la BMW. Facciamo un rapido cambio d’auto nella strada buia. Ora, sul sedile posteriore della berlina FIAT, De Mauro è stretto tra me e Nino, tra la PPK e il revolver del mafioso. Dal finestrino scorrono i lampioni gialli della periferia sud di Palermo, ci stiamo avvicinando alla campagna non ancora divorata dal cemento. Anche se il buio della notte non mi fa vedere pressoché nulla, credo che potremmo essere non lontano dal monte Grifone… otto anni fa ero diventato un esperto di geografia dell’isola di Sicilia… per motivi di lavoro, se così si può dire.

Prendiamo una via leggermente in salita, superiamo due capannoni e entriamo in una strada privata che ci conduce allo spiazzo di un’officina illuminato da un neon avvolto da cadaveri d’insetti. Qui ci fermiamo. Alcuni grossi cani da pastore tenuti in una lurida gabbia fanno un baccano d’inferno al nostro arrivo. Sono cinque, hanno i musi segnati da lotte furibonde, mostrano i denti tra le sbarre.

Il posto è lugubre, disordinato, squallido. Nino mi dice di prendere la mia borsa con gli attrezzi del mestiere ed io ho un brivido perché temo che questi bastardi vogliano farmi interpretare un ruolo che non voglio. Intanto Manu e Mimmo trascinano dentro l’officina il cronista, che adesso non ha più paura delle pistole, perché ne ha ben di più ad entrare là dentro e quindi invoca aiuto urlando nella notte, ma l’unica risposta che ottiene sono le abbiate furiose dei cani in gabbia, eccitati dal trambusto. Mimmo lo prende a pugni in faccia, il giornalista rotola nella terra, si aggrappa al tronco di un alberello. È terrorizzato, non vuole andare dentro; sa che una volta che oltrepasserà la porta dell’officina, non uscirà più. Gli sgherri mafiosi lo picchiano, lo prendono a calci ovunque, sputano insulti siciliani incomprensibili. Tre bestie rognose. Lo trascinano per le gambe. De Mauro mi lancia un’occhiata di supplica disperata. Nel suo sguardo d’implorazione ci leggo qualcos’altro oltre alla preghiera di pietà, perché ho l’impressione che conosca qualcosa di me. Ha le labbra tutte spaccate in un ghigno rosso sangue. Distolgo lo sguardo. Non mi piace per niente questa situazione. L’officina all’interno è un luogo ancora più orribile dello spiazzo adiacente. È una scenografia di chiazze d’olio, ferraglia sparpagliata, piastrelle alle pareti chiazzate di grasso, rottami d’auto, pezzi di motore. Credo che sia una tana di ladri d’auto. Lo scirocco non dà tregua a Palermo e alla Conca d’Oro, l’aria è afosa e si mischia con il puzzo di benzina e di sudore della vittima e di noi boia. Compaiono su un tavolo schifoso alla vista, ingombro di piatti sporchi, avanzi di cibo, tazze con fondi di caffè e vino, tre bottiglie di whisky di marca J&B. Mani dalle dita grosse svitano i tappi, bicchieri poco lavati vengono subiti riempiti. Noi aguzzini mandiamo giù il whisky a sorsi avidi, per stordirci, per darci la carica con il carburante di coraggio liquido. De Mauro viene legato ad una sedia, sotto la lampada al centro di questo stanzone degli orrori, da tipica scena da interrogatorio violento. Gli infilano in bocca il collo di una bottiglia di whisky, per farcirlo; il distillato giallastro scende veloce di livello, gli va giù in gola con un gorgoglio molesto e soffocante. Gli occhi del giornalista paiono schizzare fuori dalle orbite, con le pupille dilatate pronte ad esplodere. Gli hanno ficcato a forza quasi mezzo litro di scioglibudella. Quando gli levano la bottiglia, il cronista spruzza dalla bocca un getto di saliva, bile e whisky. Potrebbe rimanerci così, strozzato dal suo stesso vomito. Lo facciamo respirare. Poi volano schiaffi, fortissimi.

«Tutto ci devi raccontare su Mattei, tutto, sucaminchia».

Dalle narici del naso a proboscide del giornalista scende un fiotto di sangue scuro, un filo denso che gli cade sulla camicia. Una sigaretta gli viene spenta sulla guancia. Ansima, singhiozza che non sa di cosa stanno parlando, che non sa nulla. Ma è una resistenza breve, anche la vittima si rende conto che l’unica debole possibilità di salvare la pelle è di parlare. Non ha alcun senso fare l’eroe con questa feccia e nascondere quello che sa. Quando la lama di un serramanico scatta davanti allo sguardo, e gli accarezza la pelle sotto l’occhio, Mauro De Mauro si fa un fiume di parole in piena. Ha una voce roca, da gran fumatore, e parla con il fiatone, per le troppe sigarette fumate in vita e per le botte di stasera. Tartaglia saliva e sangue, poi riesce a parlare con chiarezza:

«Mattei… l’hanno ammazzato, l’avete ammazzato voi».

La testa di De Mauro si affloscia sulla spalla e allora sono nuove botte per ridestarlo. Guancia destra – guancia sinistra: sono sberle che suonano in note secche, la testa gli gira in scatti scanditi dalla mano aperta del picciotto Mimmo; una mano callosa da manovale. Non è sufficiente per fargli riprendere i sensi, allora il gentiluomo Manu, con la cattiveria scaldata dal whisky cattivo, usa un frustino da cavallo che fa scendere in scudisciate sulle orecchie del giornalista, e che quasi gliele stacca in stoccate crescenti in violenza. Il gentiluomo Manu ci piglia gusto nello sfregiare una faccia già molto segnata da antiche cicatrici che tornano ad aprirsi. Ci sono squarci nuovi su ferite vecchie che dopo tanti anni risorgono dolorose. Manu cadenza le frustate in pieno volto in un crescendo di eccitazione crudele. Ho assistito a tanti interrogatori nella mia carriera, e la tortura mai è stata tabù nell’ambiente, ma qua sto vivendo una scena barbara da macellai di bassa lega. Il gentiluomo Nino deve bloccargli il braccio prima che la testa di De Mauro diventi un pomodoro spappolato. De Mauro così conciato racconta cose interessantissime.

«Mattei è stato ucciso… Non è stato un incidente, ma un attentato, ho trovato le prove. È stato Gualtiero Zanotto a passarmi le informazioni».

Zanotto: trasalisco a sentire questo nome; mi tornano subito in mente i ricordi dell’ottobre ’62 e di una famosa telefonata fatta in mia presenza dall’ambiguo Zanotto al Gran Visir, per convincerlo a rientrare con urgenza in Sicilia, nell’ultima trasferta, quella fatale. Ascolto attento le altre cose che De Mauro ha da raccontarci:

«Zanotto mi ha parlato di un complotto ordito dalla CIA in combutta con i servizi segreti militari italiani, con il supporto della mafia. Mi ha confidato di essere venuto a sapere di una villa, sulla costa siracusana, di proprietà di un italoamericano che lavora per la CIA fin dai tempi del secondo conflitto mondiale, quando gli alleati sbarcarono a Gela. In questa villa ci sarebbero state diverse riunioni per decidere come sbarazzarsi di Mattei, che era considerato personaggio troppo scomodo da molti, in Patria e all’estero. A fare da collegamento tra gli americani e i boss c’era un avvocato di Palermo, molto potente, che forse conoscete bene. Si fa chiamare con una sola misteriosa lettera G.  L’avvocato G. è uomo di fiducia di Eugenio Cefis».

Trasalimento numero due: l’avvocato G. riappare sul più bello, con un’entrata in scena nel racconto del giornalista che puzza di zolfo, un’apparizione da diavolo. L’avvocato G., uomo dalle risorse infinite, mani in pasta in tutti gli affari siciliani che contano, sia puliti che sporchi, da Cassabile ’43 a Mattei ’62, e ora chissà in che altro. Nella villa di Max Corvo, che scommetto essere proprio quella a cui il giornalista si riferisce, l’avevo incontrato di persona. Zanotto ne ha spifferate di cose al cronista. De Mauro continua, ed io sono tutt’orecchi.

«Zanotto mi ha consegnato un documento, un rapporto estremamente segreto scritto dal generale del SIFAR Giovanni Allavena e inoltrato all’allora comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni de Lorenzo. Il documento, che è fatto di una sola pagina, è finito nelle mani del colonnello Renzo Rocca, rivale di Allavena, che l’ha custodito fino a quando un sicario dei servizi l’ha ammazzato inscenando un suicidio. Zanotto ne è venuto in possesso perché gli è stato venduto da un suo contatto dei servizi. Me l’ha affidato affinché potessi usarlo per il mio lavoro di ricerca sugli ultimi giorni di Mattei in Sicilia, che sto portando avanti su incarico del regista Francesco Rosi. Su quel foglio in frasi stringate c’è tutto. Si riporta di una riunione operativa con il capo della CIA di Roma, Thomas Karamessines, a cui ha partecipato anche G. e un misterioso agente con il nome di “Joe”, che però aveva anche un’identità fittizia nei servizi segreti dove era conosciuto come maggiore Oreste Lucciani. E non solo, perché nella vita da civile costui conduceva una rispettabile esistenza normale con il nome di Umberto Malinberi. È stato lui a piazzare la piccola bomba al plastico che ha mandato in avaria l’aereo di Enrico Mattei sopra Bascapè. I mandanti e organizzatori dell’attentato sono stati i vertici della CIA alleati con elementi italiani che hanno preso il controllo dell’intera ENI subito dopo la morte di Mattei. Mentre l’esecutore materiale dell’attentato è stato il misterioso Joe. È lui l’assassino».

Trasalimento numero tre: questa volta è un principio di infarto. Il prigioniero con la faccia sanguinante sgrana gli occhi su di me. Intuisce qualcosa, forse il suo sesto senso di cronista gli suggerisce che l’uomo in giacca e cravatta davanti a lui, diverso da questi altri tre animali che dovrebbero pendere da una forca, possa essere il misterioso Joe in carne ed ossa. Non si sbaglia.

I picciotti si fanno dire dove tiene nascosto questo documento e se ne esistono altre copie. No, esiste solo un foglio, l’originale, che tiene nel cassetto chiuso a chiave della sua scrivania al L’Ora. Toccherà forzare la serratura e recuperare il documento, quanto prima.

De Mauro snocciola altre informazioni, ma le cose davvero importanti le ha già dette. Mentre l’interrogatorio continua, ho tempo di pensare. Gualtiero Zanotto… chi tradisce una volta, può tradire sempre. Riesco a capire perché quell’infame abbia riferito tutto ciò al povero De Mauro, evitando ovviamente di menzionare la sua responsabilità nel complotto. Si tratta di una faida. Gualtiero Zanotto è in lotta feroce con G. Motivo della disputa: petrolio, sempre lui, lurida melma nera che fa combattere guerre e ammazzare gli uomini tra di loro. Zanotto è uscito dall’ENI ed è a capo dell’EIS – Ente Idrocarburi Siciliani. L’EIS è in guerra contro l’ENI di Eugenio Cefis per un progetto di metanodotto dall’Africa alla Sicilia. Un affare di centinaia di miliardi che potrebbero permettere ai siciliani di avvantaggiarsi di carburante e metano a prezzi assolutamente concorrenziali. Zanotto e l’EIS vogliono il metanodotto, Cefis e l’ENI assolutamente no perché hanno enormi interessi nel trasporto via mare con le petroliere. Quindi è questo il nocciolo del conflitto in corso. Sono cose che all’Agenzia conosciamo da tempo, non ci sono segreti perché dell’affare del metanodotto a Roma e a Milano ne parlano da tempo. Soldi, interessi, potere; le solite cose insomma. Da una parte Zanotto, dall’altra Cefis e il suo luogotenente azzeccagarbugli, l’avvocato G. E nel mezzo chi ci sta? C’è il povero De Mauro, usato dall’intrigante spregiudicato spietato Zanotto per minacciare Cefis e G. Guardate che io so e posso fare esplodere una seconda bomba, ancora più devastante della prima sopra Bascapè: è il messaggio mandato da Zanotto ai suoi nemici. G. ha incontrato De Mauro, e ha capito che il giornalista sapeva. L’avvocato si è spaventato e ha riferito al suo padrone. Cefis si è spaventato pure lui. Hanno chiesto agli amici di risolvere la cosa con il giornalista. Hanno coinvolto anche l’Agenzia. Pure l’Agenzia ha paura. Si è alzato un vespaio. E cosa fanno le vespe quando si sentono minacciate? Pungono.

Guardo il giornalista, provo pena per lui. Vittima ingenua di una guerra petrolifera tra potentati e moderne signorie feudali-mafiose in cui lui non c’entra nulla, poveraccio. Era entusiasta per quello che aveva scoperto; ci mancherebbe, ha messo le mani su materiale per uno scoop gigantesco, lo scoop degli scoop, il sogno di ogni giornalista. E difatti l’incauto De Mauro è stato impulsivo e incosciente. Andava in giro a spifferare ai quattro venti che aveva scoperto una roba grossa, enorme, e G. non è rimasto di certo a guardare. L’hanno usato. De Mauro è la vittima sacrificale di una partita a scacchi tra rispettabili mafiosi in doppiopetto. Zanotto voleva terrorizzare l’avvocato G. e Cefis, ex alleati contro Mattei e ora rivali. Direi che è riuscito nell’intento visto che sono qua pure io. L’Agenzia agisce per risolvere il problema alla radice e fa rapire il giornalista per farlo parlare e infine fargli la pelle. Zanotto sta facendo un gioco molto pericoloso, otterrà quel che vuole da G. o guadagnerà del piombo alla schiena? Fino ad ora quello che ha intascato è stato un rapimento di un giornalista che lui stesso aveva aizzato contro i suoi nemici. Ma delle beghe, dei piani machiavellici di affaristi senza scrupoli e delle vendette a me e all’Agenzia sono cose che non importano, che s’ammazzino pure tra loro, ci interessa invece che De Mauro non possa più parlare, e che il documento in suo possesso venga recuperato e distrutto. Inoltre, queste sono le considerazioni che riporterò all’Agenzia, e l’Agenzia provvederà a trasmetterle lungo la catena di comando:- Ostacolare la squadra mobile di Palermo; fare in modo cioè che le indagini sulla scomparsa di De Mauro siano condotte dai carabinieri. I carabinieri, essendo militari, rispondono ad una gerarchia a cui invece la polizia non tiene conto. – Diffamare la figura del giornalista. Rispolverare il suo passato fascista nella X MAS, gettare ombre e menzogne sulla sua partecipazione alla strage delle Fosse Ardeatine, diffondere infamità sulle cicatrici che porta in viso (es: segni di un pestaggio di partigiani, o di vecchi camerati traditi), insinuare che fosse un ricattatore o addirittura una spia al soldo del KGB. Gettare fango. – Movente: il giornalista è scomparso perché stava indagando su un traffico di droga, oppure su una speculazione edilizia. Mattei? Una pista sciocca, per investigatori fantasiosi che hanno letto troppa e pessima letteratura di spionaggio. – Depistare, in aggiunta al punto sopra. Che i servizi segreti militari del SID facciano il loro solito mestiere e che si adoperino a richiamare all’ordine le forze di polizia qualora esse si adoperino nelle indagini con troppa indipendenza. Creare disfunzioni nella macchina investigativa.- Trovare un uomo che faccia da talpa per intromettersi nella cerchia famigliare di De Mauro, un amico di famiglia che riesca ad ottenere la fiducia dei parenti per poter spiare così le indagini in corso e le mosse della questura. Certamente l’avvocato G. conosce qualcuno che faccia al caso. Un esploratore. – Far sparire il corpo. Il delitto è perfetto quando non si trova il corpo, quando non si capisce il movente, e non si sa come la vittima sia stata ammazzata: lupara bianca la chiamano da queste parti. Colore bianco, anche per la memoria, candeggiata. Lupara bianca: l’impossibilità di indagare. Ma sono sicuro che i gentiluomini qua con me siano maestri in queste cose, e che io non debba insegnare nulla a nessuno.

I tre banditi Nino, Mimmo e Manu, con le mani che gocciolano sangue, parlottano tra loro in un angolo dello stanzone. Nino mi chiama. Manu mi porge un bicchiere pieno fino all’orlo di whisky. Rifiuto, ho già bevuto abbastanza, sono quasi ubriaco. Nino mi punta il revolver in mezzo agli occhi e mi sfila dalla cinta la PPK. Che cazzo gli prende? Oh, Gesù, vuoi vedere che i capi dell’Agenzia hanno deciso di togliere di mezzo anche il sottoscritto? Non si fidano più di questo vecchio rottame, e forse fanno bene… chi tradisce una volta, può tradire sempre. Ma la cosa più buffa è che non me ne frega nulla, anzi. Che mi ammazzino pure e stop. Non sono più attaccato a questa vita, e i gentiluomini in questa sudicia officina di periferia dovrebbero sapere che sono tante le notti che ho pensato di aprire la finestra al sesto piano dell’albergo Principi di Milano, e fare un salto giù. Sono stanco, stanco, stanco. Un milione di volte stanco. Ma Nino non sa che non ho paura di morire e fa la faccia incazzata cattiva. Gli riesce bene. Mi ordina di bere il whisky. Ubbidisco, da bravo. Dopo pochi secondi vedo offuscato, mi gira la testa, De Mauro si sdoppia sulla sedia, i mafiosi sono sei, tre coppie di cloni. Mi mettono in mano il pugnale. Potrei rivoltarmi con uno scatto da fiera, e artigliare fendenti a destra e sinistra, così almeno uno di questi maiali se ne verrebbe con me all’inferno, ed invece no; sebbene abbia appena confessato a me stesso di non avere riguardo per la mia vita, non ho le palle per farlo. Mi lascio trasportare, senza pensare, docile, verso l’ennesima colpa tremenda, fino al compimento di un altro peccato mortale fresco di giornata.

Sotto al cono di luce d’avorio in mezzo all’officina, sembra di stare al centro di un palcoscenico di teatro, con la scarna scenografia di una sedia dove è legato un uomo seviziato. De Mauro legato alla sedia interpreta sé stesso, fuori dal cono di luce la platea di tre uomini malvagi attende con ansia il momento culminante della rappresentazione, del sacrificio umano compiuto dall’attore principale, io.

Mauro De Mauro, l’uomo con la proboscide di elefante, non protesta. Né più un lamento né una supplica. Mi guarda con la faccia gonfia dalle botte, e sorride beffardo e sanguinante, con disprezzo assoluto.

«Sei stato tu, vero? Figlio di puttana. Tu hai ucciso Enrico Mattei. Sei tu, Joe. Avanti, pupazzo, fai quello che devi».

Pupazzo mi ha chiamato. Mauro De Mauro non è la sola vittima della faida tra G., Cefis e Zanotto. Ci sono finito dentro anche io, fino al collo. Il potere ha un appetito carnivoro. L’antropofagia del potere. Mauro De Mauro ed io siamo due marionette dell’Opera dei Pupi i cui fili sono mossi da mani invisibili. Siamo comparse al fondo della piramide del comando e dell’intrigo. Noi siamo quelli che uccidono e muoiono per volere di altri. Siamo quelli che versano e fanno sgorgare il sangue, perché così è deciso dai potenti nell’ombra. Siamo delle insignificanti pedine sulla scacchiera; ci muoviamo lungo caselle spinti da dita guantate, mangiamo e veniamo mangiati, ma a condurre il gioco non siamo noi.

Mauro De Mauro sotto la luce d’avorio ha la pelle bianchissima, quasi trasparente, e, in contrasto, le macchie di sangue scintillano vivaci sulle ferite aperte. Il giornalista sceglie di morire con coraggio. Io, il killer, scelgo di uccidere con codardia. Sono solo un pupazzo. È un’esecuzione all’arma bianca di una vittima inerme. Affondo il pugnale nel petto, gli trapasso il cuore.

«Elda, Franca… Junia».

Tre parole, tre sussurri. Mauro De Mauro dedica le sue ultime parole alle tre donne della sua vita.

Mi sento vinto da un’incredibile debolezza fisica e mentale. I tre sono già all’opera per fare sparire il corpo. Stendono un telo di plastica sul pavimento. Brandiscono seghe e coltellacci da macelleria. Faranno a pezzi il cadavere e getteranno i resti ai cani. Quando le ossa saranno spolpate finiranno in un pilastro, seppellite da una colata di calcestruzzo. Mi viene da vomitare. Chiedo alla bestia Nino se c’è un bagno. La bestia mi indica una porta. La bestia si raccomanda di stare attento al quadro. Al quadro? Non capisco, forse refurtiva. Accendo la luce nella stanza e per un istante credo di avere le allucinazioni.

La stanza dalle pareti di cemento è ampia almeno venti metri quadri e il soffitto è alquanto alto. Sì, è un bagno lurido come mi aspettavo, perché c’è un buco maleodorante alla turca, e a fianco un lavandino con chiazze disgustose e con la ceramica rotta sul bordo. Ma la mia allucinazione è ben altra. Su una parete, stesa e inchiodata su assi di legno, c’è una tela gigantesca, a occhio alta quasi tre metri, e larga due. Faccio due passi indietro, meravigliato, spaventato, incredulo. Come in un vecchio film comico, metto inavvertitamente il piede dentro un secchio con dentro acqua sporca e perdo l’equilibrio. Finisco in terra a carponi, con le ginocchia e le mani appoggiate al pavimento umido, puzzolente di uovo marcio, mai lavato. Rimango così, imbambolato davanti ad un’apparizione mistica, impossibile. Sono inginocchiato al cospetto di un’immagine sacra.

Ho di fronte il quadro di cui accennava il mafioso Nino. Arte barocca, religiosa, di un pennello realista e magico al contempo. Luce divina. Non è solo refurtiva di una rapina qualunque. Mi ricordo del famoso furto avvenuto tempo fa all’Oratorio di San Lorenzo di Palermo, nel mandamento della Kalsa, di cui avevo letto sui giornali. Si tratta di un dipinto di Caravaggio. Proprio lui, genio di luce e sregolatezza, maestro di pittura e scorribande violente, il gran peccatore con la mano baciata da Dio. Scandisco il nome nella mia testa: Caravaggio, non è un artista qualunque, assolutamente – sono in ginocchio nel bagno laido di una tana di mafiosi, e davanti alla vista mi appare la visione di un dipinto di Caravaggio! Il sublime assoluto nello squallore estremo, la bellezza eterna tra la merda dell’uomo. Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi: questo è il titolo dell’opera trafugata.

È la rappresentazione di un presepio. Nessun lusso, non c’è ricchezza, la scena avviene in un’umile stalla. Una scena povera rivolta ai poveri. Al pittore il tempo non interessa; la nascita di Cristo, il divino che si fa carne, è ovunque, sempre. Compaiono personaggi vissuti in epoche diverse, come Maria, un giovane San Giuseppe e il bambin Gesù assieme a San Lorenzo, a cui è dedicato l’oratorio alla Kalsa, e a San Francesco d’Assisi, in onore dell’omonima Venerabile Compagnia, proprietaria dell’edificio da cui è stato trafugato. Non c’è gioia, ma malinconia, sottolineata dai colori spenti e dalla luce: è il quadro stesso che si mostra con quella lieve illuminazione. La Madonna sa in cuor suo quale sarà il destino del suo bimbo. Tristezza, non è la celebrazione della nascita del Salvatore degli uomini, ma il presagio della sua morte. Dimensione temporale di 33 anni: oggi Cristo nasce, domani sarà crocefisso, è scritto in cielo. Gloria in excelsis Deo recita lo striscione portato dall’angelo volante, gloria a Dio nel più alto dei cieli. Il presepe vivente, il presepe morente.

Non so cosa mi stia succedendo.