Il Cristo nel rifugio del Rosso Fiorentino

di Antonio Natali
Quando per via della peste Perin del Vaga arriva a Firenze, entra in un giro d’uomini che orbitano intorno alla chiesa di San Lorenzo e si dedicano alle arti, con uno speciale riguardo alla musica. In quelle stanze stringe amicizia col pittore Giovanni Antonio Lappoli, che, venuto da Arezzo, s’era in quell’ambiente allontanato dalla pittura per dedicarsi proprio alla musica; della quale era pure cultore il Rosso Fiorentino, che parimenti frequentava quel circolo. Del Rosso è Vasari a enumerare le qualità: «Era, oltra la pittura, dotato di bellissima presenza; il modo di parlar suo era molto grazioso e grave; era bonissimo musico, et aveva ottimi termini di filosofia. Nella architettura fu eccellentissimo e straordinario, e sempre, per povero ch’egli fosse, fu ricco d’animo e di grandezza». Chi, sulla scia d’esegesi approssimative, trovasse gusto a figurarsi il Rosso come uno scapestrato bohèmien, avrebbe di che meditare sulle parole di Vasari, che pure col Rosso ( di cui ebbe buona conoscenza) non fu sempre tenero. Vista la consentaneità culturale vigente in quel circolo, parrà attendibile la notizia vasariana del Lappoli che, grazie alle relazioni con Perin del Vaga e col Rosso, trova la voglia di rimettersi a dipingere. Quand’ecco però che anche a Firenze sopraggiunge la peste. Perino e Lappoli fuggono: Perino torna a Roma e Lappoli ad Arezzo; dove gli viene allogata una Visitazione, per la quale il Rosso ( « suo amicissimo » ) — che da Arezzo era di passaggio per andar, lui pure, a Roma — gli regala « uno schizzetto tutto d’ignudi molto bello ». È probabile che anche il Rosso, seguendo Perino, abbia pensato che Roma fosse un buon rifugio dal morbo. E partì; con la speranza magari — come poi fu — di ricevere commissioni. Sul tenore qualitativo dell’espressione di lui negli anni romani ( 1524- 1527) si sono invero levate più censure che lodi, soprattutto per l’esito reputato deludente dei suoi lavori alla cappella Cesi in Santa Maria della Pace (1524). Era stato Antonio da Sangallo il Giovane a procurargli l’incarico di tutta la decorazione di quella cappella: dal prospetto alla pala d’altare. Lui però, ch’era «ricco d’animo » ma non facile di carattere, venne presto in dissidio con la committenza, sicché la sua opera s’arrestò alle pitture murali nel registro alto del fronte sulla navata. Lì, a sinistra, aveva dipinto la creazione d’Eva e a destra il peccato d’origine; scene su cui fin da subito s’abbatté la mano pesante della critica; a principiare da Vasari, che gli rimproverava d’essersi lasciato suggestionare dai portenti di Michelangelo sulla volta Sistina, senza però averne saputo reggere la monumentalità eroica. A vero dire, il Rosso, che a Roma di sicuro avrà guardato i profeti e le sibille di Buonarroti, sembra semmai essersi portato dietro da Firenze il naturalismo financo ruvido di Masaccio; della cui lingua, il Rosso — assertore della nobiltà della tradizione fiorentina — fu cultore appassionato. Basterà osservare, a Roma, il corpo d’Adamo dormiente, appesantito nella carne, da cui a fatica sorge quello d’Eva: la loro stirpe rude è la medesima dei progenitori affrescati un secolo prima da Masaccio nella cappella Brancacci. Adamo ha gli stessi piedi, sgraziati e deformi, del gemello del Carmine. Se il lavoro non si fosse bruscamente arrestato, il Rosso avrebbe dipinto sotto gli antenati un’Annunciazione e, nel registro più basso, i santi Pietro e Paolo; che vi figurano in due più tardi marmi di Vincenzo de’ Rossi. Finalmente sull’altare avrebbe campeggiato una pala, di cui a lungo s’è ignorata la sorte; ma che reputo sia da identificare nella tavola del museo di Boston con un Gesù morto fra gli angeli. Il corpo di Cristo, scosciato sul gradino d’altare, frana nell’abbandono della morte, mentre quattro ragazzi di borgata in veste d’angeli cerofori, riccioluti e biondi, lo espongono in ostensione come si fa col Santissimo. Quello dipinto dal Rosso non è un corpo; è bensì figura del sacrificio eucaristico. Se la cappella fosse stata portata a compimento secondo il progetto del Rosso, chi, dall’aula della chiesa l’avesse guardata, avrebbe visto in alto il peccato fatale e, subito sotto, l’annuncio di Gabriele a Maria; ch’è come dire l’Incarnazione, cioè l’inizio di quel percorso di riscatto e salvezza che si chiuderà con la morte di Cristo in croce; scandalo cui soltanto la risurrezione conferisce senso. È questo il significato del poetico dipinto del Rosso: il corpo di Cristo come pane del cielo, pane degli angeli, pane dell’altare; conforme alle definizioni bibliche, teologicamente acclarate. È un corpo che si fa cibo per l’umanità tramite la liturgia eucaristica, di cui Pietro e Paolo con la loro presenza nel prospetto della cappella si rendono garanti. Il soggetto, insomma, è lo stesso che giorni fa s’è visto rappresentato da Andrea del Sarto nella coeva pala di Luco. Andrea, che del Rosso era stato maestro, avrà condiviso allora col discepolo anche la fede in Cristo redentore.
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