Il conflitto permanente che fa male al Pd (e al Paese).

di Aldo Cazzullo

La questione è talmente degenerata che, se anche riguardasse soltanto un partito, sarebbe comunque grave per la vita democratica. Ma il Pd si è trovato — per l’abnorme premio di maggioranza e per l’eclissi degli avversari — a ricoprire un ruolo cruciale nel governo e nelle istituzioni. Questo rende ancora più pericolosa la faida che si è aperta. E che deve trovare al più presto una conclusione, nell’interesse non tanto del Pd, quanto del Paese. L’alternativa è lo stallo. Il «Vietnam parlamentare», non a caso evocato in questi giorni. Una guerriglia improduttiva e logorante, non solo per il governo. Le riforme istituzionali, partite di gran carriera, sono ormai diventate un tormentone. Un’intesa per chiuderle è ancora possibile; ma il tempo e la pazienza degli italiani, tuttora alle prese con una situazione economica difficilissima, non sono infiniti. Anche perché l’impressione è che non siano in gioco due diversi meccanismi di scelta dei senatori, ma due idee della politica e della società del tutto inconciliabili.
Fin da quando è comparso sulla scena, Renzi è stato visto nel suo stesso partito come un alieno. Poi come un usurpatore. È del tutto fisiologico che alla sinistra del Pd renziano nasca un’altra forza. Del resto c’è già, sia pure non in grande salute. Sel è destinata a diventare un tassello di un mosaico più ampio, allargato alle rappresentanze del mondo sindacale che detestano Renzi e ne sono detestate. A questo punto gli oppositori del premier, che non appartengono solo alla sinistra interna (c’è un cattolicesimo sociale che lo vede come il fumo negli occhi), hanno davanti a sé due strade. O trovano un programma condiviso per portare avanti la legislatura, preparando nel frattempo una forte candidatura interna in grado di sfidare Renzi alle primarie per la segreteria e la leadership alle prossime elezioni politiche. Oppure riconoscono la propria incompatibilità con lui, e ne traggono le conseguenze.
La prima soluzione è quella più logica, in una prospettiva europea. Tutti i grandi partiti socialisti e democratici, per quanto in crisi, esprimono più personalità tra cui militanti e simpatizzanti sono chiamati a scegliere. Hollande ha dovuto superare la durissima concorrenza interna di Martine Aubry. I laburisti si dividono sulla nomina del successore di Miliband, correndo il rischio di non essere competitivi con i conservatori se la gara dovesse davvero essere vinta da Corbyn, sbilanciato a sinistra. I dissidenti del Pd non correrebbero questo rischio: contro Renzi potrebbero candidarsi personaggi sperimentati; il presidente della Toscana Rossi ad esempio si sta costruendo una «rete»; senza escludere ovviamente la suggestione del ritorno di Enrico Letta. È uno scenario di là da venire, che passa attraverso un accordo interno al Pd sulla Rai, sulla riforma del Senato, sulle misure per ridurre le tasse e rilanciare l’economia. Se invece questo accordo non fosse possibile, la scissione, per quanto grave, sarebbe un esito più serio del blocco parlamentare, dell’eterno rinvio, del conflitto permanente.
I tempi per raggiungere un’intesa e ricostruire un minimo di sentire comune ci sono; e forse non sarebbe male che i fondatori del partito, impegnati chi in missioni transoceaniche, chi in una nuova vita nel cinema, chi forse in qualche oscura trama (come quelle che certo per malevolo errore vengono attribuite a D’Alema), si muovessero per impedire la lacerazione di quel che è stato tessuto con tanta fatica. Ma se a settembre le Camere dovessero riaprire nello stesso clima con cui stanno per chiudersi, allora il Pd dovrebbe farsi un esame di coscienza. E individuare la soluzione che nuoccia meno al Paese.