Il cambiamento di Conte

Da premier sconosciuto scelto dai 5S che ha firmato leggi e decreti gialloverdi ad antagonista di Salvini
di Goffredo De Marchis
Conte bifronte. Prima figura sullo sfondo mentre i vicepremier occupavano senza scampo la scena. Ora statista, capo dell’anti-sovranismo, paragonato a politici di razza: De Gasperi (qualche giorno fa ha trovato il tempo di ricevere la figlia novantenne del leader trentino), Moro (per via delle origini pugliesi). Ma potrebbe alla fine, in caso di conferma a Palazzo Chigi, somigliare di più a Fanfani. Il Rieccolo. «Secondo lei Fanfani nella Dc sta a destra o a sinistra?», chiese Enzo Biagi all’esame di giornalismo di Beppe Viola. «Dipende dai giorni», rispose il candidato.
Ci ha preso gusto piano piano, questo lo abbiamo capito. Fino alla svolta del discorso in Senato contro Salvini. Lì Giuseppe Conte si è scrollato di dosso la fastidiosa versione di essere l’ombra di un premier. Versione che lo faceva soffrire a dispetto del sorriso cordiale, del ciuffo impeccabile. E più i giornali scrivevano che era in buona sostanza al servizio del Capitano, più lui covava una rabbia tanto nascosta quanto profonda. E un amore di sé trattenuto a stento. «Il difetto di Giuseppe? È troppo ambizioso». Lo ha detto il padre Nicola, ex segretario comunale di Volturara Appula, paese natale del premier uscente e forse rientrante. Insomma, uno che lo conosce bene e sa qual è il suo punto debole. Ambizione però non manifesta, non esibita. Persino timida. «Dica la verità dottore — si è lasciato andare qualche settimana fa durante un colloquio telefonico con un giornalista — anche lei sta diventando contiano».
Democristianamente Conte può succedere a se stesso, cambiare maggioranza come cambia la pochette nel taschino. Cangiante nei modi e nei colori: da giallo-verde a giallo-rosso (peraltro i colori della squadra del cuore, la Roma, e dicono che di calcio ne capisca parecchio). Sono bastati 40 minuti, peraltro ben recitati da vero istrione, per far cambiare idea su di lui e sul suo futuro. È sufficiente un discorso di attacco coraggioso, pronunciato in faccia all’interessato guardandolo negli occhi, per valutare una persona? Nell’epoca dei social e del movimentismo continuo probabilmente sì. Eppure Conte era sovranista (a modo suo, certo, mica con i live su Facebook) appena a luglio quando rispondeva ad Angela Merkel su Carola Rackete, la comandante della Sea Watch. «Se la Germania si lamenta per il trattamento ricevuto dalla capitana noi siamo in attesa dell’estradizione dei manager della ThyssenKrupp». Come dire: a brigante, brigante e mezzo.
Ha sostenuto e firmato i decreti sicurezza 1 e 2. Per il primo si è speso mostrando un cartello a uso dei fotografi. Ed era accanto a Salvini. Per il secondo, ancora più severo su Ong e immigrazione, firmando senza fiatare. Si è presentato in Senato per difendere il leader leghista sul caso di Moscopoli, per coprirlo come ha detto lui stesso in Senato il giorno delle dimissioni. E allora? Emma Bonino gli ha detto che non avrebbe dimenticato i 14 mesi passati a braccetto del sovranismo. Ma Conte ha spiegato che tante volte ha provato a contenere Salvini. Senza dirlo, senza fare niente di concreto e sop rattutto senza riuscirci.
Eppure è cresciuta anche all’estero la considerazione per «l’avvocato del popolo» (autodefinizione). Per “Giuseppi” come lo chiama Donald Trump. Interlocutore affidabile, sempre più protagonista. Capace di evitare due procedure d’infrazione, seduto al tavolo dei grandi, sostenitore della presidente della commissione Ursula Von der Leyen, a suo agio nei meeting internazionali, come saggiamente suggeriscono le foto consegnate da Rocco Casalino ai giornali. In uno degli ultimi vertici tirava a biliardo con i big del mondo.
Per un po’ si è anche detto che fosse nient’altro che il portavoce del suo portavoce, Casalino appunto, il quale a sua volta prendeva ordini dalla Casaleggio associati. Ecco, a questo circo Conte ha saputo sottrarsi lentamente, durante la guida del governo. A darsi un suo profilo autonomo, certificata dai sondaggi e dal seguito sui social. L’intervento a Palazzo Madama ha avuto 1,2 milioni di visualizzazioni su Facebook (più l’audience tv). Una dichiarazione dal G7 l’altro ieri 343 mila.
Era un illustre sconosciuto quando il primo giugno del 2018 divenne premier. Professore di diritto privato con qualche sospetto sulle cattedre ottenute e la conseguente accusa di essere un giovane barone. Un curriculum gonfiato a proposito di studi alla New York University dove, giurano gli americani, non lo hanno mai visto. Ma più della scarsa popolarità pesava quello stare sempre un passo indietro al premier di fatto Salvini. E si capisce che di rospi ne deve avere ingoiati parecchi. Averli sputati fuori il 20 agosto al Senato, persino esagerando, è diventata una nota di merito.
Nel corso dei mesi, sempre di più Conte si è concesso bagni di folla. Ha preso coraggio e dimestichezza con il ruolo. Baciato dalla grazia di Stato, come si dice dei politici quando vengono promossi. Più che a una metamorfosi abbiamo assistito a una trasfigurazione. In cui è emerso il carattere del premier: serio, puntuale e non sempre benevolo. Il 13 agosto, in piena crisi, ha visitato un centro anziani a Roma. Su Facebook ha scritto: «Ho conosciuto una signora che da tempo non riceve una visita dalle proprie figlie. Ho fatto con lei una foto e l’ho inviata alle figlie, scrivendo loro che se il Presidente del Consiglio ha trovato il tempo per far visita alla loro mamma, anche loro potrebbero fare altrettanto ». Avvocato del popolo e un po’ parroco severo.
Il suo rapporto con la religione è emerso anche nel discorso al Senato quando ha bacchettato Salvini per i bacetti (o bacioni) al crocefisso. Eppure anche Conte ha mostrato il santino di Padre Pio a Porta a porta, la terza camera dello Stato. Di sicuro, i rapporti dell’ex premier con la Chiesa sono solidi e non a caso oggi sono cementati dall’essere sullo stesso fronte antisovranista. Da studente universitario è stato convittore di Villa Nazareth a Roma, collegio che fu guidato dal cardinal Silvestrini, dove vengono accolti i giovani non ricchi ma promettenti. «E lui era il più promettente di tutti», ricorda un amico. Basta per il bis?
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