Calcisticamente parlando ha una tradizione consolidata – un secondo posto ai Mondiali del 1958, una semifinale all’Europeo 1992, un terzo posto a Usa 1994, un bronzo e un oro olimpico – ma non eccelsa, ha cresciuto eccellenze rare ma universalmente riconosciute come tali (il trio milanista Gren–Nordahl–Liedholm degli anni Cinquanta, più recentemente Zlatan Ibrahimović) pur non potendo contare su club di livello davvero internazionale, come dimostra l’attuale ventiquattresimo posto del suo campionato nel ranking UEFA. Tuttavia, questa sera la Svezia ha l’opportunità di estromettere l’Italia dai prossimi Mondiali in Russia, eventualità definita dai vertici federali azzurri «un’apocalisse».
Eppure, almeno sino a stasera, il vero exploit del calcio svedese appartiene a una squadra che non fornisce alcun giocatore alla Nazionale, ma veicola un’ascesa sportiva tanto rapida quanto inattesa, almeno considerando i prodromi: cinque promozioni negli ultimi sette anni e ai media, in fondo, sarebbe bastato questo per raccontare la favola calcistica di una squadra della cittadina svedese di Borlänge, costituita appena tredici anni fa alla base della piramide del pallone e che, la prossima stagione, giocherà per la prima volta nella Allsvenskan, la serie A di Svezia.
Ma dietro al dato puramente calcistico, il nome e i simboli del club in questione costringono a una riflessione in più, se la squadra si chiama Dalkurd e porta in giro per i campi, con orgoglio, uno stemma sul quale campeggiano i colori verde, bianco e rosso e il sole giallo che caratterizzano la bandiera del Kurdistan iracheno. Perché il Dalkurd, fondato nel settembre 2004 da un gruppo di rifugiati curdi in Svezia e nato dall’idea di uno di loro, Ramazan Kizil, è a tutti gli effetti qualcosa più che un club calcistico.
Simbolo sportivo di un’identità negata, il Dalkurd è conosciuto ben al di là dei confini svedesi, avendo assunto – anche per merito delle dirette della TV satellitare in lingua curda Vîn TV, i cui fondatori Sarkat e Kawa Junad Rekani sono oggi i proprietari della società – di fatto il ruolo di Nazionale curda. Dove, sia chiaro, il termine è utilizzato in senso lato, dal momento che la squadra è aperta ai calciatori di qualsiasi nazionalità e qualsiasi etnia, e si riferisce più che altro all’immedesimazione di milioni di curdi sparsi per il mondo (per fare un esempio: la pagina Facebook “Dalkurd supporter” ha oltre 1,5 milioni di iscritti) nell’assiologia proposta dal club. Nacque del resto con un fine sociale, quello di aggregare i figli degli immigrati curdi di seconda generazione di Borlänge, e oggi ha come capitano Peshraw Azizi, che è nato in Svezia e non, per dire, ad Arbil, ma l’identità curda l’ha respirata da sempre in casa, essendo figlio di un combattente peshmerga. Azizi è uno dei circa 84.000 membri della comunità curda svedese, pari circa allo 0,8% della popolazione, in gran parte discendenti di rifugiati che hanno riparato in Svezia fra il 1971 e il 1980, in fuga dai colpi di Stato in Turchia, dal massacro di Maraş, dalla guerra contro Saddam Hussein in Iraq e dalla arabizzazione forzata del regime di Baath in Siria. Di lì sino a metà anni Novanta, la presenza culturale curda nel Paese si è intensificata, tanto che alcune scuole iniziarono ad assumere insegnanti di origine curda per migliorare un processo di integrazione non certo scontato (come dimostrò, nel 2002, un caso di cronaca nera che ebbe vasta eco: l’uccisione di una ragazza, Fadime Şahindal, da parte del padre; fu un delitto d’onore) ma, via via, realizzatosi. Tanto che attualmente, nel Parlamento di Stoccolma, 6 deputati (Serkan Köse, Amineh Kakabaveh, Jabar Amin, Roza Güclu Hedin, Lawen Redar e Shadiye Heydari) su 349 hanno origine curda.
Il caso Dalkurd, tuttavia, non è un inedito nel massimo campionato svedese dove, fra il 2005 e il 2013, hanno giocato nella Allsvenskan anche l’Assyriska e il Syrianska, squadre la cui storia non è molto dissimile da quella del club curdo di Borlänge, ma può contare addirittura su una storia ben più datata. Le due squadre, infatti, vennero fondate negli anni Settanta nella città di Södertälje, 90.000 abitanti, dei quali ben 30.000 di origine assira. “Assyrier”, così venivano definiti anni fa in Svezia, ma siccome esiste diversità anche nell’identità, è più corretto parlare di assiri e siriaci, riferendosi così alle donne e agli uomini, e ai loro discendenti, che arrivarono in Scandinavia dal 1967 in avanti, dal Libano e dalle zone che abitavano nell’Alto Tigri, dalle quali dovettero fuggire per sfuggire al genocidio. Hanno tradizioni e culture millenarie: assiri appunto, siriaci (vale a dire aramei) e caldei, nomi che magari in Occidente riportano alla mente la Bibbia – e non a caso, sotto l’aspetto religioso convivono distinguendosi in diversi riti del cristianesimo mediorientale: i cattolici caldei e i cattolici siri che sono in comunione con Roma, la Chiesa ortodossa siriaca e quella assira d’Oriente – ma che in realtà hanno subìto persecuzioni e sono stati costretti alla diaspora negli ultimi cinquant’anni. Ebbene: anche per loro, prima ancora che per i curdi, la Svezia si è rivelata approdo accogliente, tanto che oggi assiri, siriaci e caldei formano una comunità di circa 140.000 persone.
Södertälje è considerata quasi una capitale per la comunità, e non è un caso che, ben prima del Dalkurd, l’Assyriska – portatore dei colori bianco rosso e blu e della bandiera nella cui simbologia compaiono il Tigri, l’Eufrate e il Grande Zab – e il Syrianska – maglia giallorossa come la bandiera aramea e, nello stemma, il sole alato tipico di diverse culture della Mesopotamia – siano state capaci di portare il proprio nome alla ribalta calcistica non solo svedese ma europea, per il semplice fatto di essere latori di una complessa storia di migrazione e integrazione, nonostante all’inizio soprattutto l’Assyriska prevedesse che i suoi tesserati potessero essere solamente di origine assira. I due club, che condividono lo stesso stadio ma giocano tra loro un derby molto sentito, negli ultimi anni hanno conosciuto un rapido declino: nel 2016 l’Assyriska è caduto ormai in Division 1, la terza serie svedese di fatto dilettantistica, il Syrianska lo ha seguito poche settimane fa, essendo retrocesso dalla Superettan proprio nell’annata in cui il Dalkurd ha ottenuto la promozione più importante.
Ma quest’ultimo è solo il dato sportivo. Il quale, in fondo, spesso rappresenta il pretesto per un breve ma allenante ripasso di storia, geografia e politica.