“Questo componimento nasceva per parole e immagini, De Fornival diceva di essersi privato del canto perché ‘meglio cantava, peggio gli andava’: io ho provato a mettercelo, mantenendo però parole e immagini”. Così si articola l’opera in scena stasera alla Union Chapel di Londra, per poi proseguire con il tour italiano – alla quale hanno contribuito filologi e storici tra prefazioni, commenti e analisi nelle Università. “Io stesso non capisco cosa ho fatto, per cui mi voglio confrontare con chi invece quelle cose le ha studiate”, dice Capossela sorridendo. Quell’attrazione magica verso la produzione medievale invece, da dove arrivi si sa. Una radice chiara, un magnetismo che aggancia il passato al presente, perché solo così si parla di storia. Altrimenti, il tempo diventa una sequela di post figli di uno scroll sullo schermo che, selvaggiamente, scompone. “Ho iniziato ad appassionarmi ai bestiari medievali perché hanno iconografie bellissime e perché nel Medioevo la realtà e la verità non coincidevano affatto. La realtà come osservazione oggettiva delle cose, era una cosa. La verità, qualcosa di irriconoscibile, che appartiene all’interiorità e alla poesia, un’altra. Due piani diversi che nei bestiari convivevano”. Perché è nel Bestiaire d’Amours che De Fornival usa il racconto di animali e fiere immaginarie per convincere la donna amata ad averlo come amico. Che prende in prestito grilli, serpenti, scimmie e unicorni per disvelare ciò che dell’amore attanaglia e libera, eleva e poi gambizza. “Così a voi/mi rivelai/per primo senza di/nulla saper di voi/rendendovi tanto arrogante e forte/e così feroce da smarrir la voce: una sensazione attribuiti al lupo, ma chi non l’ha provata, esponendosi in amore?”, spiega l’artista riprendendo in mano il suo bestiario.

Qui risiede la grande capacità dell’opera trobadorica: tutto è credibile, che si parli di draghi o di donnole. “Quelle erano evidentemente cose dell’altro mondo, mentre oggi si danno per certe molte cose che non le sono. Si è rinunciato alla dimensione della verità e si è trasformato la realtà in qualcosa di non più certificabile. Allora tanto vale usare queste allegorie, che sono dichiaratamente altro”.

È in quell’altro lì, in quelle rappresentazioni che prendono sul serio l’immaginazione, che anche le singole ritrovano il senso, come “desiderio” ne La Lodoletta, la seconda traccia dell’opera. “Il desiderio dovrebbe essere la forma più autentica dell’espressione di sé. Come l’amore, come la speranza, richiede una componente attiva, a differenza della paura, che è un sentimento passivo. Viviamo una fase del capitalismo tale in cui che secondo me le persone non sono esattamente certe dei propri desideri, perché sono a volte indotti così sottilmente da essere scambiati per i propri. E invece bisogna aver cura dei propri desideri, sono una cosa seria”.

Capossela conosce i suoi, di desideri. Si espone – anzi, mi corregge, lui espone le cose – “ma sempre in uno spazio in cui sia possibile il chiaro scuro”. “Preferisco una luce da lume di candela di una che svela tutto, ragione per cui io, fisicamente, non riuscirei ad andare a una manifestazione come Sanremo”.

Che poi, guarda caso, tra la luce e l’ombra risiede la complessità, perché complesso è l’essere umano: “Però attenzione, perché la complessità è un mezzo, non un fine. Così come la semplicità è sempre virtuosa e la semplificazione no, è un trucco, come mentire. Un bestiario che tira in ballo 56 creature per parlare d’amore è una moltitudine, complessa come il pantheon dei greci, che evidentemente pensavano che il divino meritasse rappresentanza per ogni natura dell’uomo”.

L’uomo che poi, dopo il buio, rinasce. “Il medioevo resta il periodo in cui rimane spazio per l’irrazionale, per l’epica, per tutta una serie di cose di cui siamo stati privati con quello che Wilde ha definito il ‘triste rinascimento classico’ – risponde Capossela – Non so neanche se sia auspicabile un Rinascimento, ma sì: il prossimo disco lo farò rinascimentale, così ci metto del mio”.