ai fascicoli della commissione parlamentare
sulle banche. È la storia di un testo compromettente, sottratto per ricattare,
che la polizia cerca ovunque senza successo.
Alla fine l’ispettore Dupin la troverà sul caminetto della casa del principale sospetto, mai notata proprio perché messa sotto gli occhi di tutti, come lo sono oggi i prospetti dei titoli delle banche finite in dissesto in questi anni. Più di tanti interrogatori-fiume, quei testi rivelano le difficoltà o i ritardi della Banca d’Italia e l’ignavia della Consob, ma soprattutto le omissioni dei governi (anche) in questa legislatura. Ne emerge che parte della distruzione di ricchezza deriva dall’incapacità della politica di adeguare la legge italiana alle comuni pratiche internazionali di protezione del risparmio.
Il silenzio di CariChieti
Una rete di sicurezza piena di buchi emerge per esempio dal prospetto con il quale la CariChieti, nel maggio 2013, prepara la vendita al pubblico di un’obbligazione subordinata per un volume di 10 milioni di euro. Il titolo finirà poi spazzato via con la “risoluzione” della Chieti nel novembre 2015, assieme a quelle di Etruria, Banca Marche e Carife. Ma due anni prima quel prospetto, approvato dalla Consob, è già un capolavoro di omertà. La banca dichiara: «Non si è a conoscenza di tendenze note che possano ragionevolmente avere ripercussioni significative sulle prospettive dell’emittente almeno per l’esercizio in corso». E ancora: «Non vengono formulate previsioni o stime degli utili futuri». Peccato che la Banca d’Italia stesse già lavorando sull’istituto – due ispezioni in due anni – con risultati che emergeranno con il commissariamento di quattro mesi dopo: sofferenze per oltre 400 milioni, nuove perdite previste per più di 300, problemi di antiriciclaggio, fidi in conflitto d’interessi, controlli interni risibili. Consob difficilmente poteva ignorarlo eppure autorizza un prospetto pieno di falle in vista l’emissione del bond subordinato. Una postilla precisa che CariChieti «si assume la responsabilità della completezza e veridicità» delle sue dichiarazioni. Ma così l’obbligo di trasparenza verso i risparmiatori si svuota di senso e diventa puro formalismo.
L’omissione su Banca Marche
Anche più sconcertante è il caso del bond subordinato “Upper Tier 2” di Banca Marche che muove verso il mercato nell’agosto del 2013. L’istituto ha già chiuso in forte perdita il primo semestre, un tracollo che porterà al commissariamento da parte della Banca d’Italia alla pubblicazione dei conti il 30 agosto. Appena 22 giorni prima Banca Marche presenta un prospetto con le ormai solite affermazioni: «Non si è verificato alcun evento recente nella vita dell’emittente sostanzialmente rilevante per la valutazione della sua solvibilità». E poi: «L’emittente ha deciso di non includere una previsione o una stima degli utili futuri». Il tutto corredato della formula di rito con cui Consob si lava le mani del contenuto dell’appello al pubblico risparmio. Ma l’omissione più seria riguarda una scelta diretta della Commissione di vigilanza di Borsa: accetta che non compaia nessun riferimento al principale rischio sul bond, ossia la comunicazione della Commissione europea di una settimana prima che aveva stipulato l’obbligo di sforbiciata proprio sui bond subordinati in caso di intervento pubblico. Un’omissione incomprensibile. Anche la Banca d’Italia, che conosceva i conti di Marche e detiene poteri di autorizzazione sui titoli subordinati (Testo Unico Bancario, articoli 12,7 e 53 bis), avrà qualcosa da spiegare.
Cosa rivelano Etruria
e le venete
Alla luce di quanto raccontano i prospetti di Banca Etruria, Veneto Banca e Popolare Vicenza, l’inquisizione parlamentare sulle autorità di vigilanza appare comunque una sciarada grottesca. La banca di Arezzo, in un caso emblematico (non unico) di fine 2013, precisa che la vendita dei suoi bond sono «destinate alla clientela» e «potranno essere sottoscritte dai soci». Vicenza e Veneto pubblicano prospetti con decine di pagine dedicate ad avvertenze sui conflitti d’interesse della banca che vende i bond: l’istituto gestisce il risparmio del cliente, ma gli piazza la stessa carta con cui si finanzia, calcola da solo le cedole, fa da intermediario. Nel gergo internazionale questo si chiama “self-dealing”, abuso delle funzioni fiduciarie del gestore per avvantaggiare se stesso a danno del cliente. Ed è illegale. Per debellare il rischio, da cui è discesa molta della distruzione di ricchezza di questi anni, sarebbe bastato poco: un decreto di due righe in cui si vieti alle banche di piazzare i propri titoli ai clienti — deve poterlo fare solo un soggetto indipendente – e si impedisca loro di mirare a chi si è già esposto con depositi o capitale nella stessa azienda di credito. Non è mai stato fatto. Né dal governo di Enrico Letta, né da quello di Matteo Renzi, né da quello di Paolo Gentiloni.
Si arriva così al paradosso che Veneto Banca a dicembre 2015 colloca un bond subordinato da 200 milioni, promettendo un assurdo rendimento del 9,5% annuo, appena una settimana dopo il primo azzeramento di quella classe di titoli con il fallimento di Etruria e le altre tre. E Popolare di Vicenza si vede autorizzare un bond subordinato da 200 milioni, di nuovo al 9,5%, un mese prima delle dimissioni del responsabile del dissesto Gianni Zonin nell’autunno 2015. Di tutta quella carta, ormai, restano giusto i prospetti.
Corriere della Sera – Federico Fubini – 05/11/2017 pg. 1 ed. Nazionale.